1980 dicembre 30 Le grandi emozioni di un uomo buono

1980 dicembre 30 – Le grandi emozioni di un uomo buono

Gigi Teresa Davide Ada Gigi jr. Michela, gli auguri di Natale Gigi Peronace,
calabrese di Soverato, li firmava così. La famiglia era il suo unico clan, quei quattro
ragazzi bruni, bellissimi, che portano a spasso per le strade di Londra la pelle del sud.
Due anni fa gli nacque una bimba prematura, che battezzò Argentina, mescolando
calcio e sentimento. Di lì a qualche mese, la bambina morì in incubatrice:
incontrandolo a Milano, fu lo stesso Gigi a raccontarmelo. Quel giorno mi resi conto
di quanto grandi possano farsi gli occhi di un uomo buono che piange.
Gigi Peronace era un tipo che metteva addosso ottimismo. Credo ne possedesse il
virus. Era cordiale, allegro, disponibile. La sua frase più consueta era: «non c’è
problema». Quando ci si avvicinava a un grande appuntamento della Nazionale
sussurrava trafelato, ridendo di se stesso e di tutto: «grandi emozioni! grandi
emozioni!».
Nell’ambiente federal-azzurro ci stava come può starci un completino rosso
fiammante a un funerale. Dove si muovono tutti con passo strascicato, esemplarmente
parastatale, Peronace era l’intraprendenza in carne e ossa, il public relations man, la
persona fatta apposta per comunicare con gli altri.
Aveva smesso i suoi studi di ingegneria aeronautica, pur continuando a volare basso.
Lo si può ricordare in tanti modi Peronace, fuorché da fermo. Che negli anni ’50
aiutasse formidabili campioni stranieri a trasferirsi in Italia o che negli anni ’70
provasse a rendere meno nevrastenico il clima della Nazionale, Peronace ha sempre
avuto il pregio si semplificare il calcio.
Non era un intrallazzatore; men che meno un venale. Attraverso il lavoro cercava
anche l’amicizia, possibilmente la comprensione. Gli davano ai nervi le perenni
ombre di Bearzot perché il sole di Soverato gli aveva dato in eredità gambe corte, un
solido naso, una parlata frenetica e soprattutto l’allergia ai grovigli interiori.
«Qui stiamo diventando tutti pazzi» era solito stupirsi di fronte alle interminabili risse
della Nazionale. Allargava le braccia e sbottava con quei labbroni di gomma quando
si trovava anche fare con la mentalità viziata di qualche campione-padreterno. Forse
perché aveva portato in Italia gente come John Charles o, dalla Danimarca, i fratelli
Hansen e Praest, era per lui impossibile capire le debolezze di gente con la puzza al
naso, esattamente il contrario di quei campioni che ara andato a pescare a Cardiff o
Copenhagen.
Aveva la fissazione della Stampa. Vivendo da molti anni a Londra, nel Paese di
massima espansione in cifra di libertà e dunque di intensa tradizione giornalistica,
Peronace non riusciva a immaginare la Nazionale, la squadra di tutti, senza un
corretto rapporto con la stampa, la stampa di tutti, pubblica opinione.
Diventava matto, si adirava, si vergognava per conto terzi, quando gli toccava dar
fondo a tutte le sue risorse di simpatia e di entusiasmo per riparare alle cento
meschinità prodotte dalla fazione, dalla maleducazione, dallo scarso senso
professionale di troppi.
Facendo un po’ di tutto ma niente di preciso come tutti gli «addetti alle pubbliche
relazioni», forse qualcuno immagina che Peronace fosse soltanto una rotellina
nell’ingranaggio della Nazionale. Facilmente rimpiazzatile, com’è destino di ogni
rotellina.
Temo che andrà diversamente. Gigi Peronace lascerà ampia nostalgia si sé. Presso
noi, che abbiamo servito meglio i lettori per merito suo. Presso i giocatori, anche di
quelli che erano forse dispiaciuti di non avere accanto un leccapiedi ma un manager,
termine inglese che a Londra, dove Peronace abitava, si pronuncia certamente meglio

che da noi.
Merry Christmas, buon Natale, aveva scritto l’altro giorno agli amici. Le ultime cose
di Gigi Peronace non potevano che essere buone. Un augurio rimastogli dentro mentre
stava per salire su un jet, inseguendo le sue «grandi emozioni» di sempre.