1980 dicembre 12 Illecito penale e illecito sportivo

1980 dicembre 12

“Illecito penale e illecito sportivo” Venezia fondazione Cini: Intervento di Giorgio Lago capo
servizi sportivi de “il Gazzettino”

Tra giuristi e specialisti porto la mia esperienza giornalistica. Proverò a mettere a fuoco l’aspetto
psicologico dell’illecito sportivo, l’ambiente in cui tale illecito rischia di diventare o diventa reato
penale.

Ho lavorato per anni a Milano; da anni lavoro nel Veneto. L’esperienza mi dice che tra metropoli e
provincia, tra sport cosiddetto spettacolo e sport di base non corre alcuna differenza sostanziale:
esiste oggi a tutti i livelli un curioso quanto evidente pericolo di de-penalizzazione di massa.
Non a caso un giornalista della competenza di Gualtiero Zanetti ha sostenuto in questi giorni
l’urgenza di restaurare la vecchia “commissione di inchiesta” che, per quanto riguarda il calcio,
“interveniva su tutto, in silenzio, sulla battuta pronunciata dal tesserato sotto la doccia, sino il
controllo di tante misterioso circostanze (l’acquisto inutile di un giocatore che potrebbe sapere
molto, il motivo della presenza in determinate tribune di personaggi chiacchierati, la verifica tecnica
di talune designazioni arbitrali facilmente collegabili a dirigenti o managers spregiudicati ).
L’illecito sportivo vero e proprio, la vendita della partita per fini sportivi, cioè di classifica non di
scommesse-si chiede sempre Zanetti-quando si comincerà a combatterlo seriamente?” (da Calcio
Selezione n.I, pag 19).
Ed è di questi giorni la decisione, autonoma ed inquietante, della Lega Basket di aprire un’indagine
su tutte le partite fin qui disputate in campionato.

L’interrogativo di Zanetti appare anche a me più che motivato. Mi spiego. Quando studiavo
giurisprudenza, il mio testo di diritto penale era l’Antolisei secondo il quale era ben chiaro come, a
determinare il dolo, fosse “necessaria la consapevolezza del carattere antisociale del fatto. Il che
significa – sto sempre citando lo stesso autore – che la gente deve rendersi conto di nuocere ad altri,
di ledere o di porre in pericolo interessi che non gli appartengono”.

Dunque, niente consapevolezza e niente dolo. Senonché, nello sport tale concatenazione è molto
automatica o, meglio, difronte ad essa si assiste troppo spesso a uno strisciante, diffuso rito
assolutorio che, chiudendo un occhio dentro l’altro, tende a rendere il confine tra lecito e illecito
una terra di nessuno, discrezionale e permissiva. Pochi hanno l’aria di rendersi conto che anche
comportamenti in apparenza minimi instaurano la corruzione dell’evento sportivo, sono fatti anti-
sociali, dolosi. Il senso del dolo è in via di avanzata estinzione?
Occorre chiederselo perché se trascuro la casistica, che sarebbe interminabile, di questi anni. Mi
limito a qualche osservazione, partendo dall’affermazione di un importante dirigente resami a
quattro occhi: “il giorno in cui – ebbe a dirmi – moralizzeremo il calcio, sarà finito il nostro
divertimento”. E quando lo scandalo delle scommesse incendiò le pagine dei giornali, un popolare
commentatore si chiese pubblicamente: che gusto ci sarebbe a giocare se non si potesse truccare il
gioco ? Non era una battuta; soltanto un modo di affermare che, come nel poker, anche nel calcio il
gesto più stimolante poteva essere il bluff . Se non il barare.
Il calcio, attenzione, è sport di due milioni di tesserati, di 18 miliardi giocati settimanalmente al
Toto, di 30 milioni di telespettatori. È l’unico sport di diffusione nazionale, comprensivo di San Siro
e degli innumerevoli borghi dove si giocano campionati di terza categoria o giovanili. È da evitare
l’errore di credere che i suoi siano atteggiamenti isolati o estemporanei: in realtà si tratta di una
cultura, una cultura abbastanza contagiosa, una sottocultura che privilegia l’attenuante sull’illecito e
ne fa costume. Qui il concetto di “terzi”, di “altri” o di “interesse” altrui si affievolisce.

Se fra i terzi inseriamo poi, doverosamente, il pubblico pagante, ci si imbatte allora in una vistosa
contraddizione: proprio lo sport così come così ben radicato dentro sociale e il cui prodotto si
rivolge per definizione il pubblico, proprio sport finisce con il farsi paradossalmente corpo separato,
portatore di una mentalità che tiene in scarso conto i “terzi”.
È accaduto. Consegnare a un arbitro, secondo alcuni addirittura pubblico ufficiale, doni da centinaia
di migliaia di lire è stata definita dei responsabili cortese consuetudine, prassi “normale” da porre a
bilancio di una S.p.A. sportiva sotto la eufemistica voce delle “pubbliche relazioni”. La svolta
manageriale dello sport si è in questi anni realizzata anche abbassando la soglia del lecito.

Posto di fronte un panorama che esaltava l’abilità, l’agnostica furbata dispetto della correttezza,
soprattutto il dirigente si è rapidamente convinto che, molto più della competenza e della passione,
conti la casa la pratica dell’arrangiarsi, l’arte del retrobottega, a metà fra il “Palazzo” e le
innumerevoli calli e calette della vicenda sportiva, dove la piccola grande compromissione aspira a
farsi regola, dove grandi piccoli faccendieri hanno un bel daffare. Il “Palazzo”, non cadiamo in
questi ingenui equivoco!, non sta soltanto a Roma: il “Palazzo” è un’istituzione centrale a struttura
periferica. Tante autonome tele di ragno.

Di recente il mio giornale si è occupato di un caso di “combine” nel ciclismo professionistico, sport
che ormai non fa più caso ai premi a perdere o, diciamo, agli incentivi ad astenersi, tra
patteggiamenti a volte plateali, persino sotto clamorose quanto ignare zoomate in corsa della
mondovisione. Ebbene, alle nostre censure uno dei primissimi dirigenti nazionali obbiettò: “non
capisco perché facciate tanto scandalo, nel ciclismo è sempre stato così, gli accordi ci sono sempre
stati.” Infatti l’ammenda relativa al caso fu irrisoria, simbolica, proprio perché data l’evidenza dei
fatti non se ne poteva fare a meno. La prima e l’ultima ammenda suppongo.

“Tout comprendre, c’est tout pardonner”, capire tutto è perdonare tutto. Con tale indirizzo lo sport
arriva miniaturizzare l’illecito, lo fa diventare un accidente, un infortunio sul lavoro e in ogni caso
un episodio del tutto isolato tanto che, prima che lo scandalo delle scommesse consigliasse ad
abrogarlo, imperversava tra retori sportivi un solo slogan: “la politica è marcia, lo sport è pulito”.

È impossibile capire la lezione amara dello scandalo scommesse e, non scordiamolo, l’iceberg
sottostante ad esso, senza ripercorre la pista che, arretramento dietro arretramento, ha attutito il
senso della trasgressione e cloroformizzato la nazione del regolamento.Aldilà delle responsabilità in
via di accertamento in sede penale, illustri campioni come avrebbero potuto familiarizzare con i noti
osti, fruttaroli, scaricatori e balordi di tale spessore se l’intero ambiente del calcio non avesse
tacitamente abbassato di molto la soglia delle cautele sportive e penali? E se la tentazione, a tutto
capire a tutto perdonare e a tutto rimuovere, non avesse preso stabile alloggio anche ai vertici
dell’organizzazione sportiva, come spiegare la tuttora attiva tendenza a predisporre strumenti
federali e marchingegni regolamentari per un amnistia ?

Ora, qui non si vuole accogliere l’invito, vagamente sinistro, del giurista tedesco Mezger a istituire
una “colpa per la condotta di vita”, ma certo un convegno come questo non può non fare i conti con
il suo concreto retroterra, pena l’astrazione e il perdurare di stonature anche grossolane, oltre che di
equivoci nell’opinione pubblica, tra giustizia ordinaria e giustizia sportiva. È cioè a mio parere
decisivo tener presente che qui si discute di illecito a proposito di un mondo che prova ogni giorno a
derubricarlo, anzi, a renderlo riserva di caccia esclusiva, momento pressoché peculiare, quasi tipico,
naturale: “Lo volle la natura, che in oblìo pone ogni legge” recitava un mai superato personaggio di
una commedia antichissima.

Poiché viene praticato ridosso del gioco, dello spettacolo, del tempo libero, dell’hobby o del loisir,
si ha l’impressione che l’illecito sportivo vengo vissuto dai suoi protagonisti palesi (pochi) e occulti

(numerosi) quale un illecito imperfetto, non un vero e proprio reato. Mentalità questa che ha portato
ad una sorta di originalissima teoria della compensazione secondo la quale, qualunque sia
l’intervento dei maneggioni, tutto finisce provvidenzialmente con l’equilibrarsi, senza intaccare il
risultato complessivo e senza ledere alcuno. Come dire che la sensazione selezione tecnica non ne
soffrirebbe per mero equilibrio tra scorrettezze che si elidono a vicenda.

Trattandosi di illecito, siamo all’aspetto per così dire patologico dello sport e, a scanso di equivoci,
non ho la minima intenzione di ridurre lo sport alla sua patologia. Purtuttavia, difronte a quelle che
sono state definite le sempre più frequenti “scorribande” dei pretori nell’area sportiva, si è più volte
riscontrato un molto sospetto atteggiamento di fastidio, oltre che di paura. Lasciateci lavorare in
pace!, avevano l’aria di protestare gli inquisiti di turno: ma, mi chiedo lavorare o trafficare in pace?

Qui i casi qui i casi sono due: o si ristabilisce la percezione dell’illecito o si ha il coraggio di aprire
la strada una normativa più spregiudicata dando avallo formale a un nuovo pudore sportivo, in linea
con i tempi. Perché é all’atmosfera pubblica che fanno coerentemente riferimenti i vizi privati dello
sport.

È probabile che, dovendo catalogare tra i suoi celebri “tipi psicologici” il personaggi-medio dello
sport contemporaneo, Carl Gustav Jung avrebbe optato per il “tipo estroverso” così identificabile:
“Le leggi morali dell’estroverso – dice Jung – coincidono con le esigenze corrispondenti della
società, in altre parole con la concezione morale comunemente accettata: se l’opinione comune
fosse diversa, diverse sarebbero le condotte soggettive.”

Quali testimone dello sport, mi riterrei molto soddisfatto se questo convegno, aggiornando come sta
facendo le sfere dell’illecito, contribuisse al contrario a far riprendere quota alla minoranza di un
altro tipo psicologico, “il tipo introverso”, le migliaia di uomini di sport che, giorno dietro giorno,
provano faticosamente a smentire proprio l’“opinione comune”, il conformismo, nel nostro caso la
depenalizzazione di massa. Quella che, incredibile ma ahimè vero, sogno di fare anche dell’illecito
un gioco.

Giorgio Lago