1980 aprile 24 Giorno di amarezza e di speranza

1980 aprile 24 – Giorno di amarezza e di speranza

C’è stato di tutto. Allibratori, fruttivendoli, memoriali, dossier, bugie, ricatti,
diffamazioni e, soprattutto, profumo di lercio denaro.
Denaro usato per corrompere, scommettere, inguaiare, sporcare, truffare. Denaro
usato per far parlare o per zittire. E il denaro non era nemmeno tanto.
Già nel 1970 ogni giocatore della Nazionale pigliò undici milioni per il secondo posto
al mondiale. Se vinceranno gli europei del prossimo giugno, gli azzurri incasseranno
una cinquantina di milioni a testa. Per il passaggio alla finale di Coppa delle Coppe, la
Juve aveva stabilito venti milioni a testa ad ogni giocatore.
Al loro confronto le cifre dello scandalo delle scommesse sono elemosine, un salario,
senza pudore, banconote di infimo taglio, assegni da accattoni, un tariffario della
meschinità. Che cosa sono venti o due milioni per far proprio un campione da 100-
300 milioni di guadagno all’anno? Che sono poche mazzette di centoni per truccare
una partita che fa parte di una schedina pagata ogni settimana quindici miliardi dal
pubblico?
La gente si chiede sgomenta e risponde: avidità, sottocultura, arroganza, lassismo,
impunità. Ma nemmeno dopo tante risposte ne esce appieno convinta, portandosi
dentro soprattutto un sentimento di sconforto. Cadono le braccia a vedere Albertosi in
tv, maglioni, baffi, anelli, piglio, inguini sciolti che tanto lui gli slip non li porta,
rassicurare milioni di persone che la parola scandalo lui l’ha appresa dai giornali.
Oggi cade il primo sipario. Fra poco cadrà anche il sipario penale. Si comincia a
pagare. Chi ha sbagliato deve uscire dalla porta di servizio.
Un po’ di radiazioni e di retrocessioni saranno l’alleluja del calcio, testimonianza
dell’amarezza dell’oggi quanto della speranza sul domani. Le ferite si cicatrizzano
presto, basta aver buon sangue, e questo arriva al calcio soltanto da una giustizia
finalmente spartana.
Oggi sapremo i nomi; un rosario profano, figlio di uno sport che dà il meglio con la
professionalità e il peggio con il professionismo. È l’ora, opaca e infinitamente
umana, del mea culpa.