1979 giugno 3 De Zan maglia rosa

1979 giugno 3 – De Zan maglia rosa

Romagnolo, Sergio Neri è un inviato speciale tra i più attrezzati nel
raccontare la fatica e l’umanità del ciclismo. Molto di recente ha
scritto un bel libro (“Gimondi”, compagnia editoriale, Roma, lire
3.500) trovandosi costretto a retrodatare il racconto fino al lontano
Tour 1965 pur di riscoprire intatto l’épos di un campione italiano,
Gimondi appunto.
Anche questo di Neri è un modo elegante di arrendersi
all’evidenza di una generazione senza assi, “di grandi mezzi
corridori” direbbe Gianni Brera trasferendo l’immagine dal calcio al
ciclismo. E il giro di questi giorni non potrebbe esemplificare
meglio l’impaccio.
Quasi rassegnato, ha scritto l’altro giorno Mario Fossati: “ma i
velocisti, come gli arrampicatori,
latitano al giro”. Un altro
quotidiano ha dovuto sottolineare nel titolo che Moser aveva
“rosicchiato un secondo” a Saronni: la miseria di un secondo basta
a far notizia, oggi.
E’ stato rinfacciato a Vincenzo Torriani di aver disegnato un giro
corto, leggero, facile, buono per tutti, che un Fiorenzo Magni per
non parlare di un Eddy Merckx avrebbero vinto con una gamba
sola. “E’ un giro declassato” è stato il giudizio di Guido De Rosso,
ex gregario di Merckx. Ma viene più che legittimo il sospetto di una
scelta del patron del giro mai tanto adattata alle possibilità dei suoi
ingaggiati: in fondo, il più dotato di classe è Francesco Moser che,
tuttavia, una grande corsa a tappe ancora non è riuscito a vincerla.
Se le cose stanno così, perché Torriani avrebbe dovuto costruire
una corsa da giganti senza disporre di giganti?
Perciò, asfalti sempre più levigati. Salite scorrevoli. GPM da
rapporti lunghi. Asprezze della durezza di un grissino che pur
bastano a far dire (Knudsen a Verona) “siamo tutti stanchi”.
Almeno dieci tappe sono state definite “tappe della verità”, e la
verità è stata spesso soltanto una caduta, come per De Vlaeminck
e soprattutto per Knudsen, ieri a Pieve di Cadore, quando un
distacco di rapina può ipotecare il giro.
Hanno accusato Saronni di scarso fair play nell’aver preso al volo il
tombolone di Knudsen per raccattare un po’ di secondi, quando
invece Saronni è stato realistico, figlio di Nicolò Machiavelli,
consapevole dei propri ridotti mezzi: se non ti stacco quando cadi –
sembrava voler dire verso Pieve – me lo sai dire quando riuscirò a

il

tramonto della

vincere il giro? Il fair play è borghese, decoubertiano, mette
delicate crisi di coscienza, ma non aiuta a vincere.
E che il fine giustifica i mezzi, il ventiduenne Saronni lo deve aver
prestissimo imparato assieme al pater noster dell’infanzia. L’altro
giorno non ha infatti avuto perplessità nel chiedere a… Moser di
aiutarlo a vincere il giro, per impedire l’affermazione del bieco
straniero Knudsen.
Ahimè, dove sei incommensurabile Merckx che, qualche anno fa,
a chi t’imputava di vincere troppo e da solo, replicavi senza
ipocrisia: “Io non mi aspetto niente da nessuno; non aspettatevi
niente da me. Nessun regalo”, dove sei Eddy?
E’ vero, il giro è cambiato perché cambia la vita e con essa la
scienza, lo sport, i bioritmi. Già nel 1964 Franco Bitossi vinse la
tappa alpina Cuneo – Pinerolo di 254 chilometri impiegando 58
minuti in meno di Fausto Coppi nel 1959. Tutto sopporta il
ciclismo, l’aumento delle medie e il calo della classe, ma non la
banalizzazione del campione,
rivalità,
quell’emergere dal gruppo che soltanto segna
il diverso,
l’eccellente.
Saronni che fa questua di solidarietà a Moser è peggio di dieci
coppe a plotone compatto; toglie al giro il gusto del duello al sole.
Perché nel ciclismo esista qualcuno, deve sempre esserci l’anti di
turno,
l’avversario sul quale confrontarsi. Un compromesso
Saronni – Moser sarebbe un’ammucchiata delle ambizioni, l’esatto
contrario dell’interesse, del tifo, del tornaconto degli sponsor.
Oggi è il giro è una creatura televisiva. Senza televisione non gli
tornerebbero più i conti, né economici né spettacolari. In latitanza
di assi, la telecamera lievita l’impossibile, inventa atmosfere, fa i
miracoli riuscendo a zoomare dal basso in alto tanto da far
sembrare onesti pigmei simili a tanti watussi. Non è Saronni la
maglia rosa; la vera maglia rosa è Adriano De Zan.
De Zan non conosce cadute, congiuntivite, debiti d’ossigeno,
fibrillazioni, crisi. Laconico quanto un bollettino di guerra se dà la
sequela degli arrivi in gruppo, alterna De Amicis a Freud quando si
dedica ai drammi di quelli che lui chiama “i grandi interpreti del
giro”. Non ha più a disposizione la possibilità solenne e scandita di
avvertire dai microfoni della radio: “un uomo solo…”, e quella voce
era di Mario Ferretti e quell’uomo era Coppi. Ma ce la fa
ugualmente, per mera bravura, a convincere noi tutti che la razza
degli “uomini soli”, i Coppi, i Bartali, i Merckx, esistono ancora,
basta aver la pazienza di sognarli sotto mentite spoglie.

qualunquismo,

opinioni”. Sembra

Dev’essere stato De Zan in persona a consigliare corsi accelerati
di francese e inglese a Moser, così da poter contare su una spalla
buona per l’Eurovisione ed avere, almeno lingue alla mano, un
sosia tutto intero del poliglotta Merckx. Non a caso cela poi a fatica
la soddisfazione quando a vincere è Bernt Johannson, uno
svedese che parla l’italiano molto meglio di Loro di Tezze sul
Brenta. L’Eurovisione è il Te Deum del Giro, non perdona le
stecche.
“Io non faccio polemiche – ha precisato giorni fa De Zan – io
registro
professionalità
demotivata, ma potrebbe essere soltanto un generoso silenzio,
una trovata capace di evitargli di prendere partito per incerti destini
agonistici: anche la sua neutralità alimenta la reputazione dei nuovi
“assi”.
Che la Tv abbia benissimo capito quali ragioni spinsero Torriani a
costruire un giro leggero, lo ha dimostrato un singolare episodio
accaduto giorni fa a Boscochiesanuova. Leggiamo quanto scrisse
Gino Bartali sulla Stampa: “Non è successo nulla e sono
sinceramente deluso. Tuttavia sono convinto che sia stata tolta
alla tappa la parte più severa. Ricordo benissimo che dopo il
falsopiano, oltre le case, c’era un chilometro e mezzo abbastanza
duro. Il percorso, mutilato nella parte terminale, è risultato dunque
addolcito. Per quale ragione è accaduto un fatto simile? Mi sono
documentato: ho saputo che il regista Morabito aveva scelto
questa zona d’arrivo per ragioni tecniche, ossia per far spaziare
meglio le telecamere. Boscochiesanuova si è ridotto ad un colle di
terza categoria”.
Sono i colli appiattiti, le tappe pseudonervose, il giro leggendario
soltanto a 24 pollici, possibilmente a colori, che rischiano di
depauperare il domani della corsa d’Italia. E allora siamo in molti a
sperare che, dopo il riposo di Pieve di Cadore, qualcuno provi
finalmente ad essere “sur le vélo un arcange”, un arcangelo in
bicicletta, come il francese Roger Bastide chiamò Coppi.
Un arcangelo, per quanto moderno e sofisticato, non può
“rosicchiare un secondo” di distacco. Un arcangelo, per restare
nell’evo contemporaneo, deve marciare a 50 all’ora in pianura,
come riuscì giorni fa a Moser, o salire meglio di un’Alfa le Tre Cime
di Lavaredo, come accadde nel ’68, nel gelo e nella neve, a
Merckx, che ebbi l’irripetibile fortuna di seguire rampa a rampa, a
ruota, nell’auto degli amici del Giorno, e le coperte di lana gettate

sulle spalle all’arrivo valevano quali autenticazioni notarili di una
fatica antica, di una sfida quasi paradossale alla montagna.
A quest’ultima parte del giro serve davvero un “grande interprete”,
della stazza del Moser da pavé, della stazza del Moser che si sta
leccando chilometro dietro chilometro la sofferenza di un primato
perduto, gli occhi gonfi, una ambizione frustrata. Serve un Saronni
solo, senza amici, senza cadute di
favore. Serve qualche
immagine del passato, nobile di per sé, indipendentemente dalla
regia di Morabito e dalla prosa di De Zan.
Togliete la maglia rosa ad Adriano De Zan, strappate il Giro alla
Tv, riappropriatevi dei vostri miti: c’è un arcangelo, magari trentino,
in grado di accogliere il grido di dolore?