1978 giugno 23 Agli azzurri sta bene la finalina per il terzo posto

1978 giugno 23 – Agli azzurri sta bene la “finalina” per il terzo posto
Nessun dramma per la sconfitta

BUENOS AIRES – Titolare di una grande agenzia d’informazione, Alfons Gerz
definisce “biologica” l’Olanda, forte, dura, decisa, con giganti quali Haan che
d’improvviso si scatenano come tanti braccio di ferro appena ingoiati gli spinaci. Ne
sa qualcosa Zoff che ha potuto acchiappare i sibili, non i palloni, ma ne sa qualcosa
anche Enzo Bearzot indignato per la “caccia all’uomo”, i proditori calci alla rotula di
Zaccarelli e alla pancia di Benetti, un’aggressività eccessiva: “Non ho perso la stima
nel loro calcio – ha dichiarato il ct – ma mi ha impressionato la loro cattiveria”.
Tra paternalismo e spirito di corpo, io Bearzot lo capisco, anche quando esagera e
tanta di far passare l’Olanda per uno squadrone della morte, dimentico del calcio
totale e propenso all’intimidazione. Una partita di calcio è una sfera, dove non c’è
inizio e fine, forma rotonda e manipolabile, esposta a innumerevoli possibilità
d’interpretazione. Olanda-Italia la si può cogliere dallo spreco iniziale degli italiani,
dall’esplosione finale degli olandesi, dal corpo a corpo della fase intermedia, dal
tramonto fisico dei nostri o dal becero scalcagnare di qualche “tulipano”. La verità è
sempre un dubbio. Per noi sarebbe stato davvero un affare la finalissima? Forse no,
forse è preferibile la finale per il terzo e quarto posto.
Il calcio italiano non è il migliore del mondo, conta su un milione di tesserati senza
usufruire del serbatoio della scuola; è popolarissimo in poltrona e sulle tribune degli
stadi, senza essere ancora in grado di offrire campi e spazio verde a milioni di giovani
delle città. È un calcio finanziariamente appeso al cappio di 124 miliardi di passivo
per le sole serie A e B, tanto che basterebbe il ritiro del credito da parte delle banche
per farlo fallire nel giro di poche ore. È un calcio che sta rifacendosi una verginità
tattica con un gioco più europeo e meno al risparmio, ma è lo stesso Bearzot a
suggerire cautela. “Siamo sulla strada buona, un strada lunga”, sospira il ct,
lasciando intendere che la sua nazionale, obbligata in Argentina a sette partite in
ventun giorni, ha fatto fin troppo nel liberarsi dei prudenti sforzi di campionato.
Un mese fa l’Italia era la squadra del pessimismo, che tutti avevamo affollato. Prima
della partita con l’Olanda, l’Italia era diventata la squadra dell’ottimismo, con un salto
di quaglia tipico del nostro friabile costume. Fosse riuscita ad essere finalista o
addirittura a vincere il mundial ’78, l’esagerazione avrebbe fatto di ogni erba un
fascio, trasformando l’imprevedibile exploit in sbronza collettiva. Non avremmo avuto
pudore nell’esaurire aggettivi, verbi, urla e colpi di clacson, passando sopra a tutti i
problemi di fondo, alle cose che restano da fare, allo sport che rimane da costruire in
modo più diffuso e sociale. Vincendo, la nazionale non sarebbe servita a progredire
ma a far credere che siamo gli “er più” del mondo e che non abbiamo più nulla in cui
migliorare.
La finale per il terzo e quarto posto è più affine a noi, è la nostra taglia, ci sta addosso
su misura. È un grande risultato, una bella soddisfazione, e tuttavia ci lascia aperta
una frontiera senza boati e, anche, la freddezza per restare fino in fondo nel paese in
cui viviamo, nel momento che attraversiamo, senza trasformare il calcio in fuga dalla
realtà, come sta accadendo in Argentina dove l’autostrada panamericana si è ieri
riempita di una moltitudine soltanto per veder passar via il bus che riportava la loro
nazionale a Buenos Aires.
Un’Italia nella finalissima ci avrebbe naturalmente esaltati ma paradossalmente
avvicinati a disimpegni da sottosviluppo. Meglio così, terzi o quarti, dignitosi, bravi,
al posto giusto, senza forzature, più uomini che eroi, più italiani che olandesi; nessuna
delusione a Buenos Aires, anzi, un piccolo capolavoro.