1976 Settembre 27 Saper giocare al plurale

1976 Settembre 27 – Saper giocare al plurale

Sabato ho visto la Coppa Davis e la Nazionale riflettendo che tennis e calcio erano più annodati di
quanto non potesse apparire a prima vista. Certe vibrazioni sono nel costume più che nei risultati.

Chi aspettava Panatta, trovò Bertolucci: chi attendeva Causio, incontrò Bettega . Parecchio
conformisti, siamo spesso colti di sorpresa da personaggi che esulano dal divismo e dal circuito del
pettegolezzo. Pensate a quel doppio: Newcombe è conosciuto come un idolo del pubblico
femminile; Panatta fu persino viziato da anni di fama mondana; Roche è un giraffone di dorato
pedigree. Paolo Bertolucci era il tappo della compagnia, gamba corte e insaccate, il petto espanso di
certe gags di Paolo Panelli: in un doppio di longilinei, era il bassotto costretto a correre il doppio dei
passi e gli sono costati un chilo e due etti di acqua uscitagli dai pori durante il match. Ma è stato
Bertolucci il Braccio di Ferro del doppio.

In una partita di calcio dove si stava eseguendo pigrissimo footing, Bettega ha fatto il Cruyff senza
che nessuno l’abbia mai battezzato “Pupi-gol” come Pulici, “Rombo di Tuono” come Riva o
“Profeta del gol” come il Giovanni d’Olanda. Ma la sua volèe di sinistro è da proiezione e non vale
meno delle zampate di Panatta sotto rete di una vellutata violenza.

Bertolucci è anti divo quanto Bettega e quest’ultimo è anche un piccolo ritratto del coraggio. Nel
momento di maggiore espressività della sua carriera, Bettega fu a lungo bloccato in una corsia di
ospedale. Il male ad un polmone gli fu isolato enucleato, fermato. Bettega guarì ritrovandosi più
grigio nei capelli e più pesante; pur tuttavia usò il tempo per ribellarsi alle cautele piuttosto che per
affidarsi alla maglietta di lana. E oggi è un giocatore cui si chiede sin troppo, di andare a concludere
in gol e di sudare come un mulo a conquistar palla in retrovia.

Il temperamento di Bertolucci e di Bettega sono i frutti migliori di questo week-end a Roma che ha
indotto ad altre riflessioni. Pallore della cera, faccia d’uovo, cranio lustro, Giorgio Santilli è il
medico che alle Olimpiadi di Montreal curò Klaus Dibiasi con l’ansioso scrupolo di una mamma e
ne ripristinò i tendini lasciandogli su caviglie e avambracci buchetti da tossicomane. Santilli è lo
stesso che, con l’iniezione di novocaina, ha riattivato per le due ore che servivano il braccio destro
dolente di Bertolucci. A dieci minuti dal primo set di una semifinale di Coppa Davis, la siringa non
è un gioco da ragazzi. C’entrano la dose e la fiducia che attraverso quella trasmetti: esiste infatti
qualcosa di più rassicurante di un medico in cui credi? Con l’ago attento ad evitare vene e tendini,
Santilli ha dato la misura di quanto un exploit sia collettivo; fatto di interventi anche oscuri e dove
ogni gesto pesa.

Lo stesso doppio è una lezione di organizzazione e di staff. Il doppio del tennis è un matrimonio, il
due con del canottaggio, il tandem del ciclismo. Il doppio è un separare la propria personalità, ora
da protagonisti ora da partner, in uno sveltissimo scambio tra l’io e il noi. I grandi doppi sono come
gli amori che maturano nel tempo e come gli amori, si reggono sull’altruismo.

La lezione del sabato di Coppa Davis, dalla tempestività di un medico alla sintonia di due racchette,
va letta a voce alta nello spogliatoio della Nazionale, dove Bernardini e Bearzot sono due fratelli
siamesi che si dirigono in direzioni opposte e dove i giocatori si sentono il più delle volte al servizio
del proprio “ particulare” invece che seriamente preoccupati di capire gli altri.

Questa Nazionale che, incredibile ma vero, segna di più di quanto non giochi ha bisogno di essere
gestita con maggiore chiarezza e di puntare su giocatori, come Bettega o Patrizio Sala, tanto
personali quanto portatori d’assieme. Soltanto il fuoriclasse ha il diritto di vedere la propria

aspirazione esentata dagli obblighi di cordata. Ma quanti sono in Italia questi super degli anni ’70?
Rarissimi se anche la Federcalcio ha annunciato l’imminente riapertura agli stranieri.

Si tratti di catenaccio o di schemi totali, il calcio moderno va recitato sempre più al plurale se no il
concetto di “squadra” resterà all’estero e il nostro sarà un destino d’ azzardo.

Il Gigi Riva o il Bettega di turno non sono dogmi dell’infallibilità.