1976 Settembre 21 Nostalgia del calcio fanciullo

1976 Settembre 21 – Nostalgia del calcio fanciullo

Dopo Montreal riprendo a scrivere di calcio e, lo confesso, la cosa mi costa non lieve imbarazzo
come già quattro anni fa dopo Monaco. E’ sempre così dopo un’Olimpiade, come passare dal
Bolscioi al teatrino del patronato.

L’Olimpiade moderna ha un sacco di difetti ma nessuno ne può negare l’enorme pregio di fissare
una sorta di “summa” del gesto sportivo. Gesti che, tranne rare eccezioni, riproducono l’istinto
dell’uomo, la sua preistoria, la sua lotta per sopravvivere e persino la sua cattiveria. Il correre, il
saltare una siepe, il lanciare un giavellotto, i cavalcare, il tendere un arco, l’affondare una spada, lo
schienare un avversario, il nuotare , il pagaiare, il poggiare su un kayak quanto un eschimese o un
mercante di pelli di castoro.

L’Olimpiade aggiorna azioni antiche e le affida al più progressista stampo d’uomo. E’ l’Olimpiade
a inventare personaggi e viceversa, in uno scambio sempre dinamico tra civiltà e sport. Anche gli
atleti robot, anche gli atleti-gonfiati sono coerenti con i miti del mondo in cui campiamo, il mondo
dei computer, delle sofisticazioni, delle masse. Pur nel segno negativo, L’Olimpiade è creativa.

Il calcio italiano non sa più ripetere gesti secondo natura. E’ artificioso senza solennità, povero
senza modestia, popolare senza spettacolo, petulante senza garbo. In fondo, dell’utilità del
fenomeno calcio ci si accorge soltanto quando gli introiti del “Toto” finanziano l’intero sport
italiano o quando l’aumento di 50 lire sulla schedina diventa finanziamento governativo pro-Friuli.

Non che il calcio sia anacronistico o di per sé caduco, anzi. Calciare un pallone è gesto costruito ma
solletica l’innato senso dell’evoluzione, il ridurre le differenze tra gli arti, il rendere i piedi meno
rozzi e in qualche modo “più mani”. La tecnica del calcio non discrimina poi tra ricchi e poveri
essendo alla portata di tutti, un piede e una palla possono bastare per fare Pelè e Cruyff, un affamato
ragazzino sudamericano e uno studente dell’opulento nord Europa. Il calcio è un giocatore costretto
a vivere in undici quando proprio il collettivo, la programmazione, il lavoro d’equipe, il solidarismo
e la pianificazione sono le parole d’ordine del nostro oggi e domani d’uomini: il calcio è anche
attuale e proiettato.

L’imbarazzo del calcio italiano viene invece dal suo scarso rigenerarsi tanto che i maggiori clubs
sono costretti a scambiarsi le prime ballerine, da Capello a Boninsegna, da Anastasi a Chiarugi fino
a Benetti. L’imbarazzo viene dalla radura culturale in cui vegeta, frasi fritte e rifritte, dichiarazioni
che si rinnovano di anno in anno come contratti, atteggiamenti pietrificati: basterebbe raschiare la
data dei giornali per fare dell’oggi ciò che fu ieri, quasi che il tempo non andasse mai perduto.

I ciclisti del “ciao mama” hanno almeno l’alibi di una mai depennata fatica. I calciatori lavorano
poco senza che il molto tempo libero ne acceleri l’autocritica tanto che, se uno di loro si fa prima
avvocato e poi sindacalista, è costretto a gestire la categoria con un piede nel potere e un piede nella
rivoluzione.

L’imbarazzo del calcio viene anche dal retrobottega dirigenziale dove il cinismo è pari alla retorica
della facciata. Il caso Ascoli-Lazio sta tuttora dimostrando come in certe occasioni lo sporto non sia
che una parola che comincia con le stesse due consonanti di sputo. Gli intrallazzi volano bassi come
rondini e annunciano il temporale.

E’ per i troppi attentati del “grande calcio” che la gente ama sempre più il piccolo calcio, quello di
paese, con i tiri alti che finiscono nei campi di grano e una identificazione quasi personale,

fisiologica del pubblico con i propri giocatori e di questi con il paesaggio che li contiene. Qui il
negativo è ancora allo stato grezzo, non possiede i rimbombi dei mass-media, limitati agli echi
dell’osteria.

Per questo, mentre parto stamattina con la Nazionale per Copenaghen, sento nostalgia di piste e
pedane olimpiche oltre che, con tutto il rispetto per Bernardini e Bearzot, per un tipo di calcio meno
fitto di inutili chiacchiere e più in confidenza con questi giorni di vendemmia. Il calcio-fanciullo
direbbe forse Gian Giacomo Rousseau.