1976 Novembre 18 Bettega demolisce il mito inglese

1976 Novembre 18 – Bettega demolisce il mito inglese

Very good! Tra un anno esatto dovremo restituire la visita a Sua Maestà nello stadio di Wembley
ma per adesso ciò che doveva è stato: l’Italia ha battuto con chiarezza l’Inghilterra, squadra
decaduta nella classe non nell’impeto. pensare che, a piede scalzo per aver appena perduto la
scarpa, il terzino Clement ha trovato la voglia di abbattere in tackle Graziani. Gli inglesi sono
questi, recano addosso il marchio di “leoni” anche quando i loro ruggiti non spaventano più.

Due dita di whisky tra le mani, gli occhi stanchi e carichi di nostalgia, Nicolò Carosio ha guardato
in silenzio da una precaria seggiola della tribuna. I lettori giovanissimi forse non lo sanno e i
giovani forse l’hanno già dimenticato eppure Nick incarna più di qualunque altro, persino più dei
giocatori, il mito di Italia-Inghilterra: “Oggi la partita è più rumorosa ma meno sentita” -ha
sussurrato- “e in fondo questo pubblico è il simbolo dell’Italia che lavora troppo poco: pur di
risparmiare fiato e di non faticare, la gente non urla più, usa megafoni e sirene elettriche”.

Per la Nazionale Carosio fu “la voce”, un Frank Sinatra della musica leggera americana, ed è in tale
riemergere dai ricordi che ho trovato il filo per arrivare a Roberto Bettega, detto Bob. Il suo gol,
quello del 2 a 0 , ha rifatto da solo leggenda; il gol ha riannodato la partita al passato; il gol ha
restituito solennità a un appuntamento che altrimenti ci avrebbe lasciato mezzi frigidi. Di solito quel
tipo di acrobazie sono made in England, voli d’airone a deviare il cross servito da fondo campo; di
solito a rete andavano in quel modo glia assi stranieri della stagione di John Charles. Il merito di
Bettega non è soltanto tecnico; a sua insaputa ha regalato al pubblico un fossile di calcio inglese,
atletico e straripante.

Nel sole di Roma l’aria era di grande happening, forse mai tanto intenso come dai tempi di
un’Italia- Ungheria che inaugurò lo stadio Olimpico. Alcuni ingressi sono stati forzati, la quota dei
“portoghesi” è salita tra un pubblico che è sembrato molto giovane, studenti, militari, operai. Un’ora
prima dell’inizio mi ero sentito offrire un biglietto di tribuna Monte Mario per 50.000 lire e il
bagarino assicurava di essere un vero amico.

In una coreografia che di feriale aveva soltanto la data, Italia-Inghilterra non ha sempre offerto
spettacolo ma non è mai scaduta sotto il livello di guardia della dignità. Oltre al gol di Bettega,
nessuno scorderà le movenze di Causio, un Facchetti da pittura murale, un Gentile tanto calibrato da
marcare corretto, a ruvide carezze.

Con gli inglesi falchi a centrocampo dove gli italiani erano a tratti colombe, la nazionale di Mr.
Bearzot ha vinto perché possiede attaccanti di talento e in forma oltre a Bettega, erede universale di
Gigi Riva, ai suoi piedi autore di altre prodigiose incornate.

Persino quando è stata brutta per i troppi frammenti di gioco, la partita ha conservato thrilling, con i
nostri stilisti a infilarsi da anguille fra quei pezzi d’atleta, forti, resistenti, rapaci quale lo stopper Mc
Forland. In un calcio trasformato in S.p.a. non si può pretendere che i professionisti della nazionale
si riducano a tanti Enrico Toti ma va onestamente riconosciuto a tutti un animus che troppo spesso
pareva perduto.

E’ per questo che il mondiale ’78 d’Argentina, con i suoi tanghi e le sue sambe, rimane ancora
raggiungibile. Tra i molti guai quotidiani, un risultato di foot-ball cancella una briciola di austerità.
O sono io nel pallone?