1976 febbraio 6 È sempre sfida tra uomo e natura

1976 febbraio 6 – E’ sempre sfida tra uomo e natura

Dall’ultimo schuss di Sapporo, a non più di 300 metri d’ altitudine, i jet della discesa libera
vedevano il mare del Giappone. Quattro anni dopo, l’olimpiade delle nevi è tornata a casa sua nel
cuore delle Alpi: la stirpe dei Klammer falciava oggi il traguardo a 120 allora con negli occhi la
grande valle dell’Inn. L’ordine d’arrivo celebra la patria alpina:. il primo è un austriaco, il secondo
uno svizzero, il terzo un italiano.

Berretto nero a stelline rosse, foulard di seta azzurra, la pelle abbronzata, Toni Sailer era sceso
stamattina lungo la pista. Alla fine, salutando Besson e Anzi, aveva detto:” Ghiaccio verde,
butteranno un pò di sale”. La folla saliva lungo il bosco ma lo spettacolo che cercavo era in quel
momento ancora nelle mani del Toni Sailer, gente che fiuta l’aria meglio dei lupi e che ad ogni
intuizione dell’istinto riesce a dare un traduzione tecnica. Anche il gesto, per me misteriosissimo, di
un dito passato a mezza pista aveva un significato, quello di scoprire la presenza di polvere.

Due ore più tardi, la discesa finiva di essere un ragionamento e diventava sfida tra uomo e natura,
secondo una cerimonia del rischio che soltanto i francesi sono riusciti a definire tra il poetico e
l’orrido,” A tomba aperta”. Il sole era alto e il vento rotolava sulla pista minuscoli frammenti di
bosco.

Già l’apripista m’aveva fatto una grande impressione, figuriamoci gli altri, assi ventenni che con le
loro picchiate rimestano interessi di miliardi e passioni umanissime. Gli ho visti agli ultimi
ottocento metri, dove la pista si faceva trampolino, dove Stricker e Steiner han messo gli sci a
baionetta finendo con il rotolare in una nube di neve e di angoscia. Loro ti entrano nella retina e ne
son già usciti via mentre il cronometro elettrico li crocefigge simultaneamente sul tabellone, con il
loro minuto ie loro secondi, i loro centesimi di secondo, riducendo a una lunga cifra luminosa anni e
mesi di lavoro, di perfezionamento, di conflitto con i propri limiti di uomo.

So che i canadesi riescono a poggiare il corpo in verticale su un solo braccio e ad eseguire anche
sessanta flessioni. So che la posizione del corpo di Klammer e Russi, di Besson e Vesti, fu
impostata da ingegneri. So che per far avere gli sci “caldi” all’asso, un elicottero sale alla partenza
pochi minuti prima del via. Si sanno un sacco di cose sulla fantascienza dell’atleta anni settanta, ma
tutto ciò non riesce a spiegare quella follia che accarezza la pista, Quegli gli occhi capaci di tutto e,
soprattutto, quelle ginocchia, quei muscoli, quei legamenti sui quali i discesisti caricano peso,
potenza, accelerazione, equilibrio. Caricano tutto mentre, da pochi metri ,la gente guarda ammirata
e forse morbosa, come invaghita da questi lampi che paiono scappare o inseguire, chissà, la morte.
Anche uno Xavier di Andorr,. numero 51 sul pettorale, se l’è sentita srotolare accanto uscendo a
gambe incrociate da un tonfo.

Ho ascoltato molte cose sulle solette e sulle scioline, sulla posizione del corpo e sugli indugi del
carattere. Ma, vista la discesa pressoché da turista, mi son rimasti addosso soprattutto due rumori:
quel sibilo delle lamine sul ghiaccio e quello schiocco di frusta in uscita dal salto. Niente più di
questi due rumori raccontano la vera storia della discesa libera, una storia virtuosa, del coraggio.