1976 febbraio 29 Lettera aperta a Gianni Rivera

1976 febbraio 29 – Lettera aperta a Gianni Rivera

Caro Gianni, anche oggi ad Ascoli siederai in panchina, da riserva. Tu che, con Sivori e Suarez, sei
stato il più mitico numero 10 del calcio contemporaneo dovrai per forza avvertire sulla schiena il
prurito dell’imbarazzo per il 13 della maglia. Ad essa anche un campione quale José Altafini si è
abituato da un pezzo ma per te, non ancora 33 anni, si tratta di una situazione speciale come del
resto “speciale” appare tutta la tua carriera, dal 1958 in poi.

Poiché proprio in questi giorni abbiamo dato notizia di una querela del presidente del Torino nei
tuoi confronti, la gente rammenta benissimo la battuta che ti riservò l’estate scorsa il magnate delle
catene di montaggio Orfeo Pianelli: “non faccio l’antiquario!” obbiettò a chi gli chiedeva il placet
ad un possibile scambio tra Claudio Sala e Rivera, lui al Milan e tu al Torino.

Ma tutti ricordano con altrettanta chiarezza la frase detta da Buticchi a Roma su per giù nelle
identiche condizioni: “uno scambio con Sala? – si domandò l’ex presidente del Milan per rispondere
al collega Piero Dardanello – Se Rivera è d’accordo si può anche fare”.

La frase è storica dal momento che determinò la tua indignazione di bandiera posta in vendita, il tuo
Aventino in un castello di Cozzo e l’inizio di quella “lunga marcia” che, se non leggendaria quanto
quella compiuta da Mao attraverso la Cina per batterie Ciang, ebbene del resto la stessa efficacia: né
amicizia, né panfili, né stratosferici libretti al portatore salvarono il “mandarino” Buticchi dalla tua
presa di potere. Non soltanto nel calcio, la cronaca trabocca di piccole cose nate per scolorire in
fretta: destino quest’ultimo certamente riservato anche ai giudizi di Pianelli e Buticchi non fosse che
tu stesso, con tecnica del contrappunto degna di un grande musicista. Li hai almeno in parte
riabilitati sovrapponendo al sarcasmo di Pianelli e al scetticismo di Buticchi l’annuncio del tuo
abbandono: “pur continuando per un pò ad allenarmi, – hai affermato nei giorni scorsi – sicuramente
smetto di giocare a fine stagione. Purtroppo mi sono accorto che il mio fisico pian piano non
risponde più come una volta. Trovo qualche difficoltà a riprendere a certi livelli”.

Come dire, scusa la brutalità, che Pianelli e Buttichi avevano semmai avuto il torto di intuire la
verità con alcuni mesi di anticipo e che solo per questo il primo ti aveva trattato alla stregua di un
abat – jour mentre il secondo, con più garbo, non ti giudicava più indispensabile al Milan. “Avete
visto”, – hai con bella franchezza detto domenica scorsa a San Siro – il Milan continua a vincere
anche senza di me: che ci vado a fare in campo?”. Io cerco di immaginare quanto debba pesarti un
interrogativo del genere ma proprio perché ne ammiro la coerenza non posso non annotare alla fine
che mai come ora tu, Buttichi e persino Pianelli siete figli, patetici o cinici a seconda dei casi, di un
unico sentimento: il crepuscolo di un campione tanto infungibile da aver provocato una definizione
ad personam, esclusiva come quella di “abatino”.

Trattandosi di un crepuscolo, sorta di luce che si affievolisce in noi e con noi, non ho mai capito
perché ti indignarono tanto il rifiuto ad acquistarti di Pianelli e la disponibilità a cederti di Buticchi:
non abbiamo voluto le Spa, i bilanci in tribunale, il seppellimento delle care vecchie Società
Sportive? E allora perché pretendere dai “grandi commessi” del Calcio personalità tanto composite
da riuscire a sdoppiarsi, un giorno la mano sul cuore per i giocatori – bandiera, un giorno la mano
sugli assegni per i giocatori – da cassetta? Soltanto il discusso Ambrosio ebbe la sincerità di
ammettere che i suoi milioni prestati al tuo Milan avevano lo scopo di fruttare interessi,
possibilmente alti.

In un vortice di finanziamenti hai collaudato su pelle quanto sia difficile mettere in nero su bianco
le tante belle parole sulla responsabilizzazione dei giocatori e sulla partecipazione dei tifosi tanto
che, da “giovin signore” di questo Milan, non sei stato nè una Giovanna D’Arco, nè un Don
Chisciotte. Eppure sopravvive una traccia di sogno e d’idealismo e di “santità” calcistica quando, la
voce flessa, confessì che il calcio è cambiato e che elementi con il tuo tipo di gioco “trovano sempre
meno spazio e vengono accettati con difficoltà” (La stampa, 24 febbraio) aggiungendo subito dopo,
forse per timore che ti fraintendono, che le tue idee restano d’altra parte sempre le stesse e che
ritieni “un fuoriclasse sempre utile” ( Il Giorno, idem ).

Su questo piano, mai mi sono sentito tanto solidale con te. Con te e, attraverso il tuo” tipo di gioco”
ai Corso, Mazzola, Beckenbauer, Paulo Cesar e tutti i rari culturi di un football diverso perché non
pianificato dalla corsa. La panchina è il tuo uscio di servizio e di li te ne stai con discrezione
andando: forse ti farà piacere sapere che anche chi non hai mai ritenuto l’asso un oggetto di culto
vede con tristezza scomparire dietro quell’ uscio una delle espressioni più artistiche di uno sport
giocato troppe volte con i soli piedi.

Diceva in uno dei suoi paradossi George Bernard Shaw che “se qualcosa ha soddisfatto intere
generazioni di uomini deve essere falsa”: persino i distinguo e i dissensi a te sono dunque serviti,
per renderti personaggio vero.

Buona panchina Gianni e, quanto all’avvenire, lunga vita nel calcio ex ragazzo d’oro.