1976 agosto 2 Quando lo sport è ragion di stato

1976 agosto 2 – Quando lo sport è ragion di stato

La ventunesima olimpiade va in archivio senza avere sperimentato il terrorismo, ultima angoscia
dell’uomo moderno. Quattro anni dopo, i 16 morti di Monaco hanno passato in eredità a Montreal la
paura non il sangue: né i record èl i campioni possono valere più di questo risultato, ottenuto con un
apparato di sicurezza efficace perché minuzioso e pedante per essere dissuadente.

Politica alla mano, l’olimpiade non ingloba ancora il” pianeta Cina” mentre ha perduto l’Africa, la
cui frustrazione potrebbe mettere in moto fenomeni scissionistici già tentati a suo tempo con i
“giochi delle forze emergenti” quando a Giakarta era al potere un regime indonesiano filo cinese. Il
forfait dell’Africa ha anche contribuito a quella tripolarità tecnica che sta facendo delle olimpiadi
moderne un enorme meeting tra Urss e Usa e Germania est, 309 medaglie vinte su un totale di 613.

“Da solo il talento non basta più” scrissero i francesi dopo le Olimpiadi di Roma nel ’60,
aggiungendo più tardi che “Zeus est mort “, è finita la pagana religiosità dello Stadio. Oggi il
modello proposto dello sport si realizza attraverso una catena di montaggio dove il talento si
mescola al laboratorio medico, all’industria del materiale. alla programmazione delle selezioni.

Persino i bestioni, o i nani, i giganti o i lillipuziani, non sono più categorie di” diversi”, in qualche
modo complessati dai valori medi della società, ma finiscono strumentalizzati dalla corsa all’oro:
quando la ragion di Stato fa contatto fa la conta delle olimpiadi, la vittoria di un sollevatore o di un
lottatore pesa quanto quella di un Viren.

L’est comunista ha a tal punto pianificato lo sport da rendere poeticamente patetici personaggi
come un Perri allenato a Cremona da uno tosacani o come un Simeoni e una Dorio ancor oggi
capaci di prepararsi” con allegria” a due passi dai campi di grano della campagna veneta. Se non
patetici, diventano perlomeno superati anche i” college” statunitensi. Espressione di un” american
way of life” tutta intrisa di individualismo e di spontaneismo. La loro carica di entusiasmo e di
goliardia, il loro “fighting spirit”, soffre bruschi inpatti con i risultati di un paese di diciasette
milioni d’ abitanti come la Germania est o di otto come Cuba , dove l’unica cosa che i sovietici non
sono riusciti a sbarcare sono stati i missili a testata atomica e dove gli “istruttori” si sprecano.
Nasce da questo montare della tecnologia dello sport il grido di dolore lanciato 24 ore fa dal Coni
attraverso Onesti e il suo braccio destro Pescante. Entrambi hanno chiesto finanziamenti, dirigenti
professionisti, tecnici stranieri, collaborazione delle industrie, intervento dello Stato per garantire
agli atleti il posto di lavoro. Ci troviamo di fronte ad esigenze che coinvolgono milioni di giovani:
la scuola come polmone di sport sociale; lo Stato come propulsore di sport agonistico. Prima di
arrivare tra gli undici e i tredici anni alle selezioni tecniche, i nuotatori si costruiscono fisicamente
nelle scuole e nei giardini d’infanzia.

La rivoluzione è arrivata ad uno stadio tanto sofisticato che i casi sono due: o ci si adegua o si
sceglie di restare nel giro come folklore e graffiti di altri tempi. L’Olimpiade esprime uno sport
dove lo spazio alla gioia di vivere vien sempre più ridotto, mentre aumentano i carichi di fatica e
una esplorazione via via più scientifica dell’atleta.

Fortunatamente, con me nel ‘36 Hitler non riuscì a evitare a Berlino lo sberleffo anti- ariano del
negro Owens, così la fabbrica di sport non è valsa adesso a inaridire del tutto la ferminazione
dell’uomo, del campione, del personaggio sul podio del salto in alto. Erano arrossati di pianto gli
occhi della mediterranea Simeoni, ma velati anche quelli della Prussiana Ackermann. Senza contare

che la passerella di Montreal ha espresso, al di sopra dei regimi, più di un prototipo dell’ ultima
matura gioventù degli anni 70.

Le conferenze- stampa del cubano Juantorena sono state l’appuntamento con uno studente di
economia più che con un mezzofondista e il ventenne californiano John Naber, nuotatore fantastico,
ha offerto tutta la brillantezza di chi si avvicina alla laurea in scienze umane e vien chiamato da tutti
“il politico”.

Quando, spenta la fiaccola, lo stadio si è fatto buio, il tabellone elettronico ha acceso la scritta
“Arrivederci a Mosca 1980”, La prima Olimpiade di un Paese comunista è già cominciata: ”Stiamo
costruendo- ha rivelato il dirigente sovietico Vladrishlav Chevtechenko- un complesso olimpico che
sbalordirà il mondo. Con i giochi noi vogliamo dimostrare che non temiamo nessun paragone e che
non abbiamo nessun complesso”.

La realtà delle supe potenze, la loro” confrontation”, è ormai al cuore di un’ Olimpiade che per il
barone De Coubertin doveva essere individuale e non prevedere alcuna classifica. Si tratta di
prenderne atto senza lasciarsi schiacciare e cogliendo invece i fermenti dell’atleta, delle realtà
nazionali e persino paesane.

Fra le tredici e medaglie italiane, c’è l’oro e l’argento del diciannovenne veneziano Dal Zotto oltre
al magico argento della veronese Sara Simeoni e a quello del trevigiano Coletti, senza contare l’oro
davvero a 18 carati morali di Klaus Dibiasi di Bolzano: non ho vergogna ,in tanto gigantismo e in
tanto verticismo, a confessare il gusto della mia terra, un lembo di Olimpiade per ribellarsi alla
pianificazione dello sport.