1975 gennaio 31 Saverio Garonzi, il Commenda

carrettiere,

1975 gennaio 31 – Saverio Garonzi, il Commenda

I suoi sono i gesti di un Don Lurio, secchi nervosi. La pigrizia gli è
distante, l’immobilità sconosciuta. Nemmeno mentre conversa le
gambette di Saverio Garonzi riescono a star ferme. Sono gambe di
ex-centravanti, di ex-motociclista, di ex-automobilista: gambe
assuefatte allo scatto.
Parlare per Garonzi è anche una piroetta sui tacchi, un piegarsi in
due battendo le mani, arricciare il naso, frenare certe parole sul
palato, che non è balbuzie ma una sorta di pausa per dire le cose
che gli stanno più a cuore.
Forse per distanziare un’ascendenza di
il
Commendatore non è mai trasandato. Il nodo della cravatta
centrato, la riga dei capelli tracciata con il righello, le scarpe lucide,
quel vestire un po’ provinciale che non sarà mai di un Agnelli o di
un Moratti ma che è coerente con un’esplosiva soddisfazione di
essere Saverio Garonzi di Verona. Poca gente al mondo
dev’essere altrettanto felice della propria identità.
Un giorno lo intervistarono al Telegiornale sui problemi dei
campionato. Gli uscì di bocca un “fando così” al posto di “facendo
così”. Un altro al suo posto avrebbe provato disagio, Garonzi no,
un uomo non può arrossire per un gerundio soprattutto quando la
gaffe sta nell’uso del dialetto, “un ramo villano/di storia italiana” per
usareil verso di Gigi Meneghello.
Il dialetto che è sentirsi eterni, legati alle cose perdute, equilibrati
tra il passato e il domani, impastati con la terra, non soggetti –
come ha ricordato Bruno Visentini trevigiano ministro delle Finanze
– ad “una mutilazione nella formazione del pensiero e dei
sentimenti e nella espressione di essi”.
Io lo immagino Garonzi che reagisce al sequestro nonostante una
Smith&Wesson calibro 38 puntata in faccia. E’ il semplice che
rifiuta la paura perché quella, la paura vera, la paura da piangere,
l’ha patita soltanto quando gli rimase la famiglia, ma una famiglia
senza figli.
Garonzi sorride abbassando il capo, sghignazza fino a chiudere le
palpebre: non è Mastro Don Gesualdo ma il suo attaccamento alla
“roba”, a tutto ciò che possiede, pare lo stesso uscito da qualche
pagine del Verga.
Quella di Garonzi è tutta “roba”, uomini e cose comprese, l’azienda
e la squadra, il conto in banca e quella specie di ranch sul Garda
che è Veronello, un
tocco di elegia nella giornata di un

businessman dell’auto che tempo fa si definì “il più bell’affare di
Agnelli”.
Garonzi è il presidente che cerca il pubblico, persino se è un
pubblico con il sasso in mano. Non scappa mai alla fine di una
partita. Esce e arringa, i suoi dialoghi con la gente che protesta
meriterebbero una memoria testuale perché sono campioni di
sociologia embrionale, lampi di un populismo che scompare.
Non lo spaventa una pistola, ma lo terrorizza il giudice. Anche un
giudice del calcio, tanto da farsi fanciullo, bugiardo, sorpreso con
la mano nella zuccheriera. Alla Caf, il giorno della retrocessione in
B del Verona, avrebbe voluto dire “Mi affido alla vostra clemenza,
fate quello che volete”. Ne fu dissuaso dagli avvocati. E il suo Ecce
Homo di presidente se lo tenne come una pietra dentro.
Garonzi è molte cose. Un mattatore, istrione come i mattatori. Un
clown, patetico come un clown. Un affarista, astuto come gli
affaristi. Un veneto, contraddittorio come i veneti.
Aspettiamo che torni, esattamente così, come ce lo ha consegnato
la cronaca dello sport: Garonzi, il Commenda dal “fando” facile.