1975 agosto 4 Gianni Reif. Il viennese

1975 agosto 4 – Il viennese

La sigaretta, il caffè, la lampada, la biro. A Gianni E. Reif piaceva
scrivere, di notte. Non avendo mai scritto un solo articolo a
macchina, lavorava silenzioso, la calligrafia larga e rotonda, mai
più di dieci righe per foglio, che i tipografi avrebbero distinto di
primo acchito fra cento.
Ma era lo stile a farne un solitario, un unico nella storia del
giornalismo sportivo. Viennese di nascita, il conoscere l’italiano
come seconda lingua lo aveva probabilmente aiutato ad affidare la
brillantezza della frase non tanto all’immagine ricercata quanto alla
battuta e alla provocazione.
E’ morto pochi mesi dopo Nereo Rocco, di sangue viennese
quanto lui, per il quale coniò espressioni come paròn o panzer,
quest’ultima a proposito dei ruvidi battitori d’area del Grande
Padova.
Gianni E. Reif è stato il giornalista dei personaggi, da Gianni
Agnelli a Gipo Viani. Il suo giornalismo doveva essere clamoroso,
o non era; di prima pagina, o non era; personalizzato fino all’ultimo
rigo, o non era. Aveva bisogno di far parlare la gente, di capirla e
spiegarla, essendo il calcio per lui soprattutto “il grande barnum
dei piedi”, come lo chiamava. Il suo sport era Supersport, un
superlativo per testata.
Gipo Viani era il razza Piave prediletto, e il Gipo ha raccomandato
a generazioni di giornalisti di “stare sempre dalla parte della
classe”. Reif ci stava, prediligendo gli Haller, i Corso, soprattutto
Omar Sivori. Nel pieno degli anni ’60, quando il calcio milanese fu
ombelico del calcio europeo, a Reif sarebbe piaciuto, per mero
divertimento estetico, veder Sivori, calzettoni bassi, testone nero, il
sinistro delicatamente spietato in area di rigore, giocare nell’Inter
herreriana, ritmo e profondità. A detta di Reif, sarebbe stato il più
bell’innesto del calcio di San Siro.
Un paio di volte, con titoli vistosi, diede l’annuncio-speranza:
“Sivori all’Inter”. Non accadde nulla e l’anno successivo, quando
un
il
trasferimento, uscì con un nove colonne cubitale: “Sivori all’Inter
(ma stavolta è vero)!”. Reif conosceva l’ironia, sapeva sorridere
delle proprie debolezze e
lettori, molti, moltissimi, erano
altrettanto disposti a cogliere del suo giornalismo l’aspetto mai
torvo, mai accidioso, mai con la puzza al naso, incapace di
cattiveria anche nel sarcasmo.

incontro Moratti-Sivori parve davvero

concludere

i

leggermi

Concittadino di Freud, leggeva molto bene negli occhi della gente,
imbattendosi in rare gaffes nonostante più di trent’anni di mestiere.
Una sera cercò Gipo Viani a Nervesa e, non trovandolo, fu
incapace di rinunciare all’intenzione di intervistarlo. Ne uscì un
lungo articolo zeppo di dichiarazioni anche importanti. Due giorni
dopo Viani protestò al telefono: “Ma che cavolo scrivi? – gli urlò –
se non ci siamo nemmeno parlati”. Eppure, al di là dell’apparente
indignazione, il dispetto era un altro e fu lo stesso Gipo a
confessarmelo più tardi: “Reif mi fa rabbia – confidò – perché riesce
a
il pensiero. Non c’è nemmeno una sillaba di
quell’intervista mai fatta che non corrisponda esattamente a
quanto penso”.
Un vero giornalista si fa riconoscere a occhi chiusi, senza l’ausilio
della firma. Reif lo era, e lascia in eredità un linguaggio popolare,
oggi auspicato dai grandi editori di massa.
A lui, di quanto aveva vissuto e avuto, premeva soltanto l’eredità di
alcune lettere inviategli dalla mamma ebrea tanti maledetti anni fa,
da un campo di sterminio nazista, dal quale non uscì più. Quel
ragazzo impaurito mandato giovanissimo a salvarsi in Italia, forse
ha scritto tanti anni di umanissimo sport per dimenticare quel
delitto.