1974 gennaio 20 Sport popolare di un popolo senza sport

1974 gennaio 20 – Sport popolare di un popolo senza sport

Non è che il 6-0 di Ajax-Milan possa far testo, da solo e per sempre, come emblema di due concezioni
dello sport e, in particolare, del football. Il 6-0 si soffre però da grande occasione per tentare conoscere
noi stessi. E la domanda numero uno diventa: in che tipo di Paese nasce il calcio all’italiana?
In un Paese dove, nel 1974, viene definita “storica” la circolare ministeriale che riattiva l’interesse
della Scuola per lo Sport. In un paese dove, nella scuola, l’“ora” di educazione fisica e quella di
religione sono le ore che non contano. In un Paese dove, per contrasto a stimoli di fame, il
professionismo sportivo sfocia nell’esibizionismo.
In questo Paese, il calcio ha circa 700 mila tesserati, 15 mila squadre; ruota un giro d’affari di oltre
100 miliardi all’anno ed esemplifica una sotterranea ambizione popolare: quella del figlio
“campione”. Ma, sprovvisto alle spalle di una cultura sportiva di massa, esprime handicap atletici di
questo genere: “i nostri sono piccoletti. Di testa noi non segniamo un gol nemmeno se giochiamo 40
anni!”. Non l’ha detto l’allevatore di una squadra-pulcini ma il tecnico di una grande squadra:
Maldini, e parlava del suo Milan.
Sport popolare di un popolo senza sport, il calcio del dopoguerra si è trovato, probabilmente senza
saperlo a un bivio: giocare “alla pari” con i più forti cercando di impararne alla lunga la lezione
atletica o inventare un marchingegno per superare in fretta l’inferiorità?
In una Società che ha sempre guardato con simpatia più al furbo che all’intelligente, più all’impresario
di “fortuna” che all’educatore, la risposta non poteva che essere una: trovare il marchingegno.
Non è casuale che i padri fondatori del catenaccio, Viani (Salernitana) e Rocco (Padova) siano di
“patria veneta”, terra di prudenza, meglio portata al concreto che al teorico, più sensibile ai risultati
che alle idee.
E, d’altra parte, non è nemmeno casuale che la reazione al catenaccio sia stata condotta negli anni ’60
da Helenio Herrera e da Fabbri, cioè dalla fantasia di un sudamericano e dall’altrettanto istintiva
effervescenza di un romagnolo.
Appena atterrato in Italia Helenio, impostò secondo “taca la bala”, non distante nel ritmo e
nell’aggressività all’Ajax d’oggi: solo che all’impatto con il muro padovano, l’Inter avanguardista fu
trafitta, persino brutalmente a San Siro.
Sghignazzato un po’ da tutti, Helenio cambiò rapidamente strada: prese battitore pure lui e, anzi, lo
fece più “libero” e più “fisso” del libero padovano. In poco tempo l’ex-terzino Picchi diventò
paradigma del catenaccio adottato da HH per “colpa” di Rocco.
Quando ebbe in mano la Nazionale, Fabbri tentò di farne un “corpo separata” dal campionato. Questo
il suo ragionamento: “il catenaccio può andare in Italia dove tutti lo adottano. Dev’essere corretto
quando si gioca contro squadre straniere, sennò saremo sempre in stato di inferiorità”.
Fabbri ripudiò Picchi preferendogli Salvadore, la cui maggior apertura negli spazi fu chiamata
“fluidificazione”. Ma mentre l’Inter di Picchi vinceva in Europa e ovunque, l’Italia di Salvadore fece
grande la Corea dei “ridolini”, secondo definizione di Valcareggi.
Passati in quegli anni da epici antagonisti, Herrera e Fabbri avevano in realtà percorso la stessa strada
anti-catenaccio, con il taca la bala e la fluidificazione. HH lo aveva fatto prima; Fabbri più tardi:
Fabbri fu cancellato dalla Corea così come il Padova era stato la Corea del Mago.
La restaurazione del catenaccio toglieva respiro persino a chi, come l’ex-padre fondatore Viani,
avrebbe voluto correggere al Milan ciò che era stato costretto ad inventare dalla pochezza della
Salernitana: il Gipo non ebbe il tempo di saldare la tattica allo “spettacolo” anche perché l’Inter poteva
contare su un superasso (Suarez) e su molti campioni (da Mazzola a Picchi). Persino nel ’67, l’Inter
melinò per una ventina di minuti il Real Madrid a Madrid e certi gol di Mazzola, come quello
“lunghissimo” di Budapest contro il Vasas, stanno in cineteca. Il catenaccio di HH ebbe lo stato di
grazia, cioè gli uomini e la velocità degli schemi, capaci di creare persino un’“estetica”.

L’equivoco di fondo, fino all’impotenza del 6-0 di Ajax-Milan, naque, oltre che nel costume di un
Paese, in quel momento concretissimo del calcio nostrano. E si è trascinato, con l’esemplificazione
più discussa, nella finale di Coppacampioni ’73.
A Belgrado la Juve rinunciò a Cuccureddu nel tentativo di bloccare, con tre punte invece di due, la
potenza dell’Ajax (per la stessa ragione, Agnelli e Allodi avrebbero optato addirittura per quattro
punte cioè Haller in più): ebbene, dopo la sconfitta per 1-0, fummo costretti persino a sentire facezie
di questo genere: “con Cuccureddu la Juve non avrebbe perso”. I qualunquisti del catenaccio si
sentivano traditi e sono magari gli stessi che, completamente smemorati, rinfacciano ora a Rocco di
essere andato ad Amsterdam con un terzino, sia pure ex-ala come Sabbadini, con la maglia di
attaccante.
Una donna brutta può apparire bella, quanto una donna bella per nascita, quando intelligenza e bontà
o sensibilità o finezza diventano per così dire lineamenti, non di scorta, ma addirittura sostitutivi. Il
catenaccio è una brutta donna che, anno dietro anno, noi abbiamo invece reso bruttissima togliendogli
il filtro della classe, della velocità, del pionierismo.
Quando naque, il catenaccio portava con sé un passato senza ossessioni da “safety first” tattico
(“sicurezza prima di tutto”): i protagonisti che lo reclamizzano per primi non erano “nati per” il
catenaccio ma vi erano stati adattati recando con sé il bagaglio culturale del WM.
Questa che noi stiamo raccogliendo ora, è invece la generazione degli “specialisti”, di ragazzi nati e
cresciuti nel catenaccio, avezzati in NAGC dove i bambini dicono “io voglio fare il libero” e dove i
maestri non sono sufficientemente coraggiosi per resistere al vero virus del catenaccio:
l’avarizzazione dei ruoli, la specializzazione assurda.
In questo senso, abbiamo seminato male, illusi di poter contenere gli aspetti negativi del catenaccio.
Che, oggi come oggi, va demistificato. Una questione di accenti: più tecnica che tattica, più
partecipazione che marcatura, più aggressività che temporeggiamento, più gusto del correre che scatti
conteggiati con interessi da usurai.
Ma il costume di questo nostro fantastico Paese ne sarà capace?