1972 settembre 3 Quattrocento chili di bistecche

1972 settembre 3 – Quattrocento chili di bistecche

Novantamila abitanti, Barletta, lungo la costa del “ Tavoliere ”, dove il fiume Ofanto sfocia la poca
acqua di Puglia, e il lavoro è piccolo commercio e agricoltura: viene di laggiù Pietro Mennea,
l’italiano più veloce degli anni ’70. A metà giugno, nel giro di diciotto ore, ha infatti corso i cento
metri in 10” e i duecento in 20”2 che sono, in entrambi i casi, il tetto dello sprint in Europa.
Da allora, il postino gli porta ogni giorno una mazzetta di lettere, molte delle quali timbrate
Inghilterra o Francia: l’indirizzo è spesso una sigla, “ Mennea-Barletta ”, e ormai potrebbe bastare
anche “ Mennea-Italia ”.
Ci son atleti che non riescono a spezzare in due la vita, da una parte la politica dall’altra lo sport, e
provano gusto a sentirsi agit-krop di valori extratecnici. I vertici di questo atteggiamento furono
toccati quattro anni fa in Messico. Dopo aver vinto i diecimila, Temy quasi urlò nei microfoni:
“Non ho vinto io, non ha vinto il Kenya, ha vinto l’Africa ”. E Tommy Smith, duecento metri in
19”8, salì sul podio salutando la bandiera di Abramo Lincoln con il pugno serrato in un guanto nero,
simbolo del “ Black Power ”, ideologia da pantere nere: “ I negri sono stanchi, – fu detto in una
conferenza stampa – di essere considerati cavalli da esibizione cui donare in premio noccioline ”.
Non ha frustrazioni di pelle o revanchismi da terzo mondo, Pietro Mennea, ma anche lui in fondo è
un poster, l’immagine di un valore della nostra società: lo chiamano “ freccia del sud ”, calcando di
intenzioni più il sud che la freccia. Del goleador Anastasi, Mennea non porta infatti soltanto,
“Pietruzzo”: sono tutti e due veicoli di quello che i giornali meridionali chiamano “ riscatto ”,
riscatto dell’uomo attraverso l’epos sportivo, riscatto del mezzogiorno, della mezza Italia in ritardo
sul nord, della mezza Italia dell’immigrazione, del reddito più basso, della scuola e degli impianti
sportivi da poco in uscita dal pionierismo.
In tale prospettiva, Mennea si trova del resto coinvolto, quasi inconsapevolmente. Per i colored
come Tommy Smith la chiesa Battista di Los Angeles era anche una tribuna; per Mennea di
Barletta, la chiesa del villaggio di Monaco, è soltanto un silenzio della coscienza, una stazione alla
quale spesso l’ho visto arrivare. Manifesti del sud, comizi di riscatto, non s’addicono alla sua anima
di ragazzo composto, riservato, senza complessi latitudinali.
Da tutto ciò che so di Mennea, sceglierei un dettaglio per l’identikit: domenica scorsa, era molto
amareggiato, e l’ha confessato, per non aver sentito la sveglia e aver perso così la messa, l’unica, alle
9.
Il mento gli scappa di lato, alla Totò. Ha compiuto vent’anni lo scorso giugno ma i suoi occhi
contengono più età, nello sguardo a tratti acuto, a tratti di stupita riflessione. La barba è peluria
sparuta, tra qualche ricordo d’acne giovanile, mentre i capelli mostrano l’ordine, pettinati allo
specchio.
Non ha la faccia distesa, il colore salubre di un Valery Borzov: la sua cera sconfina in un pallore che
segna scure occhiaie. Nel volto, pare quasi gemello, di Paola Pigni che ne è l’amica più quotidiana,
nelle caotiche promenade del villaggio.
Ha letto tutti i gialli di George Simenon e usa di frequente la cuffia per ascoltare musica alla
discoteca del centro-atleti: il suo “ classico ” sono i Beatles e Mina, perchè “ pur avendo la voce più
potente, canta con dolcezza ”.
Terzo di cinque fratelli, esce da una famiglia ai confini del sottoproletariato, per il quale la norma
non è fame però pane giornalmente patito. L’aneddottica rivela che furono i soldi di un gruppo
d’amici a pagargli il conto del dentista, episodio sul quale non ho chiesto a Mennea conferma o
smentita.
Pur senza miracolismi, è stata l’atletica a sottrarlo alla povertà. Attraverso “ Pietruzzo”, il padre,
sarto, ha potuto ottenere uno stipendio, modestissimo eden della busta-paga, come fattorino
all’ospedale di Barletta. E lui, Mennea, vive e studia a Formia a spese della federazione che gli
passa anche sessantamila lire al mese, primo rimborso per aver restituito l’atletica nostrana alla hit
parade della velocità “ corta ”.
L’inverno scorso, Mennea era ancora crisalide; ora è atleta adulto e le riviste specializzate lo

indicano come outsider dei 200, in pista tra poche ore, domattina alle 11.
– A che pensi sul tartan?
“ Mah, in quei pochi secondi penso solo a vincere. Ma, così, come un’ombra. Passano in testa anche
Barletta, la mia famiglia, la mia vita ”.
Visto che cominciò giocando a football, e fu anche tifoso della Roma. Del pallone sapeva poco ma
scattava più di tutti e, un giorno, si trasferì quasi senza accorgersene all’atletica leggera. Fu un
amico dal nome ridicolo, Pallamolla, a provocarlo sullo sprint e a batterlo sempre!
Qualcuno ha scritto che Pallamolla è un’ invenzione, non sarebbe mai esistito, Mennea invece lo
ricorda benissimo e sorride rammentando che, recentemente, all’inaugurazione del nuovo stadio di
Barletta, sentì una mano battergli sulla spalla, si girò e quello gli disse: “ Sono Pallamolla, non
ricordi? Ti battevo sempre ”.
Da domani, avversario non sarà più quel frammento d’infanzia. Da domani, il tempo sarà un
conteggio elettronico con Burton, Black, Chuck, Smith. Per arrivare in corsia con loro, Piero
Mennea s’è allenato tutto l’inverno, una volta al giorno, per due-tre ore, quasi immancabilmente al
pomeriggio verso le 17, l’ora in cui i soggetti a pressione bassa cominciano a vivere in pienezza.
Dall’anno scorso, s’è irrobustito, aumentando di quattro chili che sono, come li sintetizza Nebiolo,
“quattrocento chili di bistecche in più ”, surplus di alimentazione che ha cancellato le frugalità di
Barletta, anche se Mennea non è un ipermuscolare ed ha scoperto soltanto ora il lavoro ai “ pesi ”.
Tentando un record d’anni fa, Oberweger fece marciare Pamich al suono di una marcetta militare.
Cortese, mai divo, Mennea cerca il suo “ particolare ” psicologico cancellando i 200 metri dai
pensieri della vigilia. Stamattina, l’ho incontrato con Livio Berruti e Ferraris, giovane pistolero:
parlavano di colpi e bersagli, d’accordo come erano di rispettare una specie di “ silenzio atletico ”,
nemmeno una parola sui 100 metri corsi ieri senza Mennea o sui 200 di domani con Mennea
sventolato da noi tutti come un tricolore.
Riservato, arrosisce se gli chiedi “ sei fidanzato? ”, tutelando la privacy con un battito di palpebre.
Solitario, quasi schivato da molti del clan Italia, Mennea rappresenta una modestia autentica non
l’altra faccia della presunzione. Quando gli ho chiesto un confronto con Berruti, ha risposto:
“Berruti ha già vinto un’olimpiade, io no”. Alto un metro e 78 centimetri, con 69 chili di peso,
Mennea può ancora migliorare: “ Posso fare i duecento in 19”9 togliendo al mio tempo attuale tre
decimi d’imperfezione: uno alla partenza, lievemente esitante: due all’uscita dalla curva, per un
piccolo sbandamento d’anca ”.
Prima di scattare per una medaglia a Monaco, Pietruzzo Mennea farà il segno della croce e la mano
destra gli passerà sugli occhi come una pellicola, Barletta, il padre, l’olio di Puglia, la siccità del
Tavoliere. Senza grancassa, perderà o vincerà anche per loro. Vincerà o perderà anche per l’amico
Pallamolla che un giorno, magari sul podio olimpico, gli arriverà alle spalle per dirgli: “ Ricordi,
sono Pallamolla, io ti battevo sempre ”.