1969 settembre 21 Un record per Riva Prati e Anastasi

1969 settembre 21 (Il Gazzettino)

Un record per Riva Prati e Anastasi
Dal « grande Torino » alla tattica degli anni ’60 – Il lamento di Lerici – Tre prodotti istintivi –
Gli attaccanti stranieri

Il record delle reti segnate in un campionato a 16 squadre risale al 1942-’43: per 30 partite i gol
furono 742, con una media per match di 3,091. Il campionato fu vinto dal « grandissimo Torino »,
quando Grezar, Loik Mazzola e Ferraris II segnarono 30 gol a testa! I tempi sono cambiati ed è tale
la distanza tattica da allora che quel record ha tutta l’aria di restare « eterno », come del resto
meriterebbe il « mito » insuperabile stampato dal Torino.

Ma la rivoluzione non ha variato soltanto il momento tattico del football. Nonostante ottimismi
saltuari, l’atmosfera del gioco offensivo si è andata sempre più rarefando per moventi estranei al
meccanismo stretto dell’area di rigore. Ciò che caratterizza tutto il calcio italiano degli anni ‘60 è la
ricerca « esclusiva » del risultato. Il successo del catenaccio nasce su tale terreno; sotto la pressione
psicologica di tutto l’ambiente. L’idealismo olimpico viene rovesciato nei nostri stadi: importante
non è « partecipare », importante è « vincere ». Lo spettacolo come surplus che ci si può permettere
al massimo quando la squadra sta in vantaggio per 4-0.

L’allenatore difende la panchina-pagnotta, giorno per giorno, ora per ora. Il meccanismo di
Società sempre più influenzate dagli umori dell’opinione pubblica non offre la minima garanzia ai
tecnici. Nessuno perderà il compenso che il contratto prevede, ma con estrema rapidità un tecnico
può ritrovarsi a riposo, con tutta la perdita di prestigio e di chances che ciò comporta. La categoria
dei trainers non rischia più. Helenio Herrera rischiò ma si convertì rapidamente al cliché nostrano.
Carniglia, che porta in sé tutte le tentazioni spettacolari del « calcio danzato all’argentina », riflette
nelle squadre che dirige un’incertezza di fondo, un « vorrei ma non posso », a metà strada tra il
catenaccio e l’attacco fatto di cinque attaccanti. Lerici, quando la sua stella di intellettuale della
panchina si stava spegnendo, mi disse: « Il dramma di noi allenatori è di non poter più inventare
nulla, perché se sbagli una partita per peccati… difensivi, perdi in attendibilità, ti linciano, a
cominciare dalla stampa che riflette e condiziona i gusti del pubblico. Io sto pensando da tempo ad
uno schema nuovo. Potrebbe uscirne una mezza rivoluzione tattica, come per il WM, ma chi è
disposto a darmi una squadra permettendomi di partire tutto controcorrente? Nessuno ». Ricordo
che Lerici aveva un foglietto sulle ginocchia pieno di numeri, indicazioni, marcature: « per ottenere
qualche gol in più », spiegava.

Catenaccio dunque come conservazione della pagnotta dell’allenatore e come difesa per dirigenti
spesso legati alla politica, a interessi commerciali o industriali. In definitiva legati anch’essi ad un
altro tipo di pagnotta: il giudizio (favorevole) del pubblico. In questo clima unanime, è chiaro
perché il vivaio esprime raramente giocatori con mentalità spettacolare, con il gusto robusto del gol,
con il coraggio tipico dello sfondatore. Ci ha poi pensato il blocco alle importazioni di assi stranieri
a mettere la definitiva museruola al gioco d’attacco. Dal ‘60 in poi, tra i vincitori del « premio
sportsman » (gol fatti per partite giocate) leggiamo Sivori (2 volte), Altafini, Manfredini, Nielsen,
Vinicio! Diciamo la verità: Sivori aveva il « cabezon » pieno di tutto, di classe ma anche di
anarchia; Altafini si meritò da Gipo Viani la patente di « coniglio » per la paura furba che lo
prendeva in area di rigore; Manfredini portava un piede fatto per tutto fuorché per il calcio; Nielsen
ha offerto e sta offrendo vuoti amletici; Vinicio piegò spesso il rendimento a turbe ambientali. Ma

tutti, da Sivori a Vinicio, con personalità ed esempi antitetici, ripagarono sempre il pubblico, nel
significato più estetico ed esaltante.

Riva, Prati e Anastasi non sembrano prodotto dell’ambiente; prodotto cioè di una nuova fioritura
offensiva, di una generazione consolidata da un indirizzo tecnico. Sono l’atipico, l’istintivo
fisiologico applicato al calcio. Anastasi avrebbe potuto specializzarsi sullo scatto in atletica; Riva di
riflessi e potenza nel pugilato; Prati nel rugby. Sono atleti, poi calciatori. Atleti, non muscolari e
basta, nel senso più estensivo che coinvolge temperamento, senso agonistico, carica interiore.
Guardate le loro facce, di Riva, Prati, Anastasi, appena la palla entra in rete: sta segnata negli occhi,
nella smorfia, nelle reazioni senza calcolo, la loro « superiorità » offensiva. Parto di personalità, più
che di tecnica pura. Frutto della tecnica sono infatti solo i quattro gol di Gianni Rivera a Brescia: la
Tv ha mostrato mercoledì scorso, con immagini didattiche, l’incredibile self control di Rivera.
Compostezza assoluta dopo ognuno dei quattro gol. Tiro, testa bassa e dietrofront verso il
centrocampo, senza gesti di esultanza, senza emozione. Atonia unica, di chi oramai « esegue un
numero » di laboratorio, indipendente dalla squadra.

742 gol in un campionato resta cifra mitica, oggi irraggiungibile. Ma gli strumenti per tentare
saranno ancora il siciliano Anastasi e i lombardi Riva e Prati. E tutti quelli che, come loro, per un
gol riescono ancora ad urlare. Rivera è un unicum.