1969 settembre 14 Il campionato e l’ombra di Caserta

1969 settembre 14 (Il Gazzettino)

Da oggi comincia la grande sagra del foot-ball
Il Campionato e l’ombra di Caserta
Come nasce il nuovo campanilismo – Si tenta di razionalizzare molte logore strutture del
calcio – Società per azioni, sindacato calciatori, spirito di club: basteranno queste riforme a
tenere lontana l’irrazionale violenza che ogni giorno esplode negli stadi

Oggi, domenica 14 settembre, è il giorno che ridà a milioni di persone la « droga del football ».
L’estate s’è bruciata in fretta dopo la gigantesca roulette del mercato. Divi sempre sul set, i calciatori
hanno esaurito sulle spiagge la stretta fetta di libertà vigilata a disposizione, ancora storditi da cifre
alienanti. Li abbiamo seguiti, dichiarazione dietro dichiarazione, per indovinare quale sarà il battito
del campionato. Flash sempre puntati, ottimismo. Poi gli ingaggi, contrattazioni anche aspre.
Qualche bilancio di Spa che salta, ma, tutto sommato, il cliché di sempre, la grande « festa parlata »
del calcio d’estate. Saremmo giunti al 14 settembre con la solita ruggine, ma senza drammi.

Invece ci siamo svegliati una mattina e ci siamo accorti che la festa era finita, che il dramma
covava, che la strada del calcio poteva anche portare a Caserta. Perchè? Perchè proprio mentre è in
atto una innegabile razionalizzazione del fenomeno sportivo? Perchè all’alba del ’70 quando il
campanilismo assorbe umori nuovi? Una esaltazione anormale, spinta fino alla mania, scredita il
fenomeno. Ma dobbiamo chiederci: è un « ghetto » estraneo al tessuto sociale italiano o un affresco
abbastanza fedele di società italiana?

Per evitare che lo « spirito di Caserta » si abbatta sul campionato, bisogna capire Caserta,
riconoscere le radici della violenza. Ed è sintomatico che proprio i politici si siano dimostrati
sensibili nel rifiutare tesi semplicistiche, cioè la convinzione che Caserta sia un « fatto interno » del
calcio-Moloch. Scriveva mercoledì scorso « Il Popolo »: « E’ qui il dato veramente preoccupante di
tutta la vicenda casertana: il rafforzarsi dell’arretrata e infantile convinzione — sul piano culturale
— che il farsi giustizia da sé (se si ritiene d’essere nel proprio diritto) sia l’unico metodo per reagire
al torto subìto: e che questo torto lo si attribuisca alla Lega calcio, ad un tribunale, allo Stato o
all’intera Società, poco importa. Il movente di fondo non cambia ».

Chi, come a Caserta, spezza le condotte idriche, saccheggia il Genio civile, il Provveditorato agli
studi, la Pretura, il, Comune, le sedi della Posta e dell’Inps, non è uno sportivo e nemmeno un tifoso
che protesta per la retrocessione della squadra. E’ qualcosa di più, di più importante, un frutto
nemmeno italiano, ma del nostro tempo che è tempo nutrito di tensioni incendiarie, di nevrosi, di
disagi capaci di assorbire tutti i « pretesti ». Honduras e San Salvador non cominciarono a sparare
per una partita di calcio, ma la partita servì, pretesto di massa, ad una guerra di frontiere e interessi
economici. La Svizzera neutrale ed isolazionista usa i cani-poliziotto per garantire le partite. Persino
l’Inghilterra del fair-play si è arresa: manganelli, agenti in borghese, cariche a cavallo, arresti e
processi svelti per « pacificare » gli stadi. A Manchester, in semifinale Coppa Campioni, volano in
campo pietre e cocci di bottiglia; a Liverpool viene decisa la recinzione del terreno di gioco:

l’autodisciplina si è fatta utopia; a Glasgow teppismo e whisky diventano riti « accessori » della
partita.

I nessi internazionali non consolano, ma aiutano a capire i mali del calcio made in Italy. A Roma si
organizza una sottoscrizione, migliaia di firme, per chiedere che « l’arbitro Lo Bello non diriga più
una partita nella quale sarà impegnata la Lazio ». All’autoritarismo vecchio stile, di vertice, si è
sostituito l’autoritarismo di base, altrettanto ingiusto perché settario. Mi diceva un giorno Angelo
Moratti, ex presidente della grande-Inter: « Il tifo si fa sempre più fanatico, ma non credo che, visto
in dimensione larga, il fenomeno sia indecifrabile: la gente possiede una forte carica di aggressività
e non ha ideali né grandi moventi sui quali indirizzarla. L’unica bandiera comoda che le resta è la
bandiera di una squadra di calcio! Meglio che l’urto si stemperi in uno stadio ». Tesi cinica, dettata
da esperienza diretta, a volte stressante. Ma mi pare che « l’idealismo di riserva » prospettato da
Moratti come radice della violenza e, tutto sommato, come il minore dei mali, sia superato oggi da
un transfert operato meccanicamente: la Federcalcio è il Potere, il Giudice Sportivo è il Tribunale,
l’Arbitro è il Carabiniere. Perciò non c’è sentenza, nemmeno una, del giudice sportivo avv. Barbé di
Novara che non scateni immancabilmente « stupore e sdegnate reazioni ». La contestazione diventa
una abitudine.

Vediamolo più da vicino, questo campionato.
La frontiera degli anni ’70 non ha ripudiato il campanilismo: solo che le colorazioni si adeguano.
Nell’Inter di Milano non gioca nemmeno un calciatore milanese; nella Torino « meridionalizzata »,
la Juventus parla tutti i dialetti fuorché quello piemontese. Scomparso l’aggancio squadra-città, lo
spirito di campanile si esprime attraverso un’interferenza più profonda dei tifosi delle decisioni della
Società-squadra. Il tifoso considera la squadra « roba sua » e ne legittima il possesso con il prezzo
pagato per il biglietto d’ingresso o l’abbonamento. I tifosi oggi sono organizzati in Clubs; una
Società provinciale come il Lanerossi spende sette milioni all’anno per finanziarli. Mercoledì notte a
San Siro i Milan Clubs furono inquadrati dal presidente Carraro per impedire il lancio di petardi e
bengala, tassativamente proibito dall’Uefa. La responsabilizzazione apre uno spiraglio positivo sul
campionato ’69-’70, perché finora il neo-campanilismo del tifo organizzato ha contribuito molto
spesso a scavare fosse d’intolleranza medioevale.

Eppure mai come ora il calcio italiano tenta la strada della razionalizzazione. Rinuncia a forme
« speciali » di organizzazione e va a prestito di schemi socialmente collaudati. La partecipazione,
sia pure confusa, dei tifosi. La sconfessione, in parte formale, del mecenatismo e la nascita,
attraverso la trasformazione in società per azioni, di una faccia aziendale della Società di calcio. Il
boom degli impianti. La ascesa della medicina sportiva. Il ricorso a metodi di allenamento sempre
più scientifici. La costituzione di un Sindacato-calciatori, come secondo partner, assieme alla
Federcalcio, di una « lotta di classe » interna. La messa in discussione, per ora larvata, del
« vincolo » che lega il calciatore alla squadra in un rapporto padrone-oggetto.

Il calcio dunque come affresco quasi fedele del tessuto sociale nel quale respira. Non un

« ghetto », ma un « settore », con pregi e difetti rappresentati. Per questa ragione, tema da
campionato vero sarà il « caratterizzarsi », ridando sangue agli anemici valori strettamente sportivi,
tecnici e spettacolari.