1968 maggio 30 Un giro pulito per gente pulita

1968 maggio 30

La grande corsa sulle strade trivenete
Un giro pulito per gente pulita
E’ cominciato a Peschiera il giro del Cinquantenario della Vittoria – La sofferenza di Jimenez
e quella di Motta

(DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE)
Lago di Caldonazzo, 29 maggio
Nel volumetto fatto stampare dal giornale organizzatore del Giro c’è ad un certo punto una pagina
quasi bianca con una striscia rossa che l’attraversa formando una specie di triangolo con vertici in
Trento, Trieste e Cortina. In alto alla pagina sta scritto: « L’itinerario che rievoca il cinquantenario
della vittoria ». E’ un Giro nel Giro. L’altro giorno un collega spiegava compiaciuto ad un gruppo di
amici che nei suoi « pezzi » non ne avrebbe mai parlato. Nemmeno sfiorato il tasto.

E’ una « pruderie » molto di moda quella di snobbare tutto ciò che, anche per un lieve riflesso
nello sport, sappia di regione, di provincia. Ma non è nemmeno questo il punto: snobbare tutto ciò
che richiami la tradizione, un valore cioè che non odori di vernice fresca — non ricordo più chi l’ha
scritto, forse Chesterton — ha una tal fretta di essere nuovo che non si ferma nè sulle verità nuove
nè su quelle vecchie.

E’ cominciato a Peschiera questo giro « da non nominare ». L’ho avvertito quasi fisicamente, per
una dimensione veneta, dispersa, quasi impalpabile, ma tremendamente reale. E’ il colore di un
selciato, certe masse di pini che sembrano cuciti assieme. La gente che non si sbraca: c’è un
cartello: « Gimondi il paziente ». Un aggettivo come questo non poteva che uscire qui. Qualcuno,
del Giro, era partito da Brescia un po’ preoccupato. Si parlava di uno sciopero che sarebbe coinciso
con l’arrivo dei corridori. Si temeva, sia pure vagamente, la ripetizione di certe miscellanee con lo
sport sul tipo di quelle che accaddero a Milano, e, recentemente, in Spagna.

« Lo sciopero c’è stato, questa mattina », spiegò un operaio, alla fine della tappa. « Che centra il

Giro? ».

Mentre salivamo sul valico di Vetriolo con l’asfalto cotto per il sole e i lati verdissimi ancora
intrisi della pioggia di tre giorni, la nostra macchina scansò tre che giuocavano « ancora » con voci
forti, seduti per terra. Infilati accanto, come bandiere, due bastoni e cartone: « Dai Motti che il
terreno scotta » e « Adorni mercenario! ». Una ragazza bionda, seduta sul prato abbassò la gonna
sulle ginocchia con un gesto lieve, di un pudore tutto « trentino ».

Questa mattina, verso Lazise ho incontrato due dilettanti in allenamento, Quintarelli e
Mantovani, che avevo seguito al giro del Friuli. « La nostra casa si è impegnata a passare al
professionismo: il prossimo anno correremo anche noi ». Scherzai sulle « bombe ». Quintarelli
sorrise: « Non servono a nulla e fanno venir il mal di fegato. Io prendo un paio di vitamine, roba
che danno ai bambini. Ha visto cosa succede al Giro? C’è l’antidoping ma i migliori sono sempre
quelli ».

Mi chiesero, salutando, di fare una tirata a 50-55 all’ora sulla scia della macchina. Dopo una
decina di chilometri si staccarono. Stavano arrivando i professionisti, il Bondone in faccia. Mezzo
di sassi, di ghiaia sottile, con pietre enormi, grigie che rimbalzano dai lati il riflesso del sole: la
parte da salire. Mezzo in asfalto, una passeggiata: la parte da scendere.

Un giorno in Tv si parlò di « dissacrazione » del Giro. I « processi » quotidiani lo hanno
vivisezionato. Un’antologia di spinte. Si parla addirittura di una « confraternita delle spinte ». Di

gente pagata e dislocata in punti-chiave con compiti precisi studiati a tavolino. Si parla di gregari
buttati allo sbaraglio; di spinte patriottiche date agli italiani e non a Merckx, l’incarnazione dello
straniero. Carapezzi ha confessato l’altro giorno di essersi trovato Gimondi appeso alla moto — ma
Baracchi, Mino Baracchi, l’industriale — organizzatore del trofeo omonimo osserva: «Ci sono
sempre state, ci saranno sempre. Ormai fanno parte della classifica per tradizione: l’unico rimedio
sarebbe quello di chiudere i tratti più duri al pubblico o di piazzare delle transenne.

Sul doping e sulla relativa operazione anti-doping pesano un sacco di obiezioni e di interrogativi
inevasi. Perchè le analisi a Roma e non a Firenze come è sempre accaduto in operazioni analoghe?
E’ vero che qualche corridore avverte « prima » che ha avuto la febbre durante la notte e che è
quindi possibile che un innocuo medicinale dia esito positivo?

Non credo che la gente voglia a tutti i costi scarnificare il Giro, ridurlo all’osso, togliergli la
pelle, rimettergliela. Come per un divertissement. Il Bondone ha mostrato una ghiaia spessa che
copriva i tubolari. Il Bondone ha mostrato la sofferenza silenziosa di Jimenez. L’« altra »
sofferenza, quella di Motta. La discesa spettacolare di Zilioli. Fatti tecnici, sportivi, puliti. Come
l’ambizione dei due dilettanti di Lazise.

E’ su questo piano che la Tv, la grande protagonista del giro, può servire o distruggere la corsa.
Se proietta un filmato di cadute; se tiene un aggancio d’archivio con Coppi; se avvicina con
mostruosa abilità tecnica il pubblico alla corsa reale (non a quella raccontata); se tocca tasti concreti
senza il gusto di sguazzarci, allora la Tv serve al Giro, tecnico, sportivo, pulito.

Se dilata polemiche minime, se radicalizza i protagonisti, se propone ombre di alleanze, di
sottofondi inespressi e inesprimibili, allora la Tv distrugge. Non si può fare del Giro, sia pure
d’Italia una specie di Vietnam o di dramma perpetuo. Perdere il senso delle proporzioni,
dell’humour in fondo significa, in questo caso, sfregiare il volto stesso del Giro. Che è quello
espresso dal pubblico ai bordi della strada: con tensioni semplici, quasi sempre meno complicate e
artificiose di quelle suggerite con vari lavaggi del cervello.

Il Giro è entrato nel Veneto. Il Veneto che non lo vuole nè ipocrita, nè inventato.