1968 giugno 2 Grazie superman

1968 giugno 2 (Il Gazzettino)

Uno spettacolo d’eccezione: il campione belga
Grazie, superman!
Come fa? Ecco il dubbio di chi crede al « tatticismo programmato » di Gimondi

(DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE)
Tre Cime di Lavaredo, 1 giugno
I Cento chilometri, i primi cento, di « neutralizzazione ». Il giorno esasperato, della paura atletica e
organizzativa, comincia in Valcellina. Lo sguardo di Torrioni è appiccicato al finestrino. Metto un
pullover subito. Brividi di freddo, una pioggia leggera, a metà corsa. Il fiume Cellina è una striscia
di smeraldo del più reale. Una strada senza sorpassi, tutta nella roccia. Qualche ponte crollato, lo
sanno tutti quando. Sulle volte di due gallerie, un fascio, un’aquila imperiale e la data: Anno XI
dell’era fascista.

Questa è provincia nuova, di Pordenone: Barcis ha bacino artificiale, un lago fatto in casa; pochi
minuti di macchina, Erto. Un cartello procura brividi nell’anima: « Girini, i superstiti vi salutano ».
Questa è terra di morte; il Vajont, un nome lugubre che vale duemilacinquecento croci. La strada
gira attorno a un enorme canyon riempito di terra, milioni di metri cubi, piombati nel bacino, cinque
anni fa, come una mela in un bicchiere colmo. Mi fermo a qualche metro dalla diga, quella che fu
scavalcata, non abbattuta. Un uomo di mezza età ci dice: « Erto e Casso hanno avuto trecento morti
e sono quasi tutti qui sotto ». Sotto i piedi, magari soltanto qualche metro sotto i nostri piedi. I
superstiti hanno cementato qualche lapide, e fiori, sotto la galleria, di fianco alla diga che sembra
anch’essa un’enorme lapide anonima, per tutti.

Scendiamo « dall’altra parte », Longarone. Il giro, i corridori, sollevano la testa, guardano,
soprattutto gli stranieri. Cerco un punto e mi sembra che si trovi proprio sotto una gru. « Quel
giorno », all’alba, arrivai su facendo gli ultimi chilometri in bicicletta e a piedi. Proprio lì, mi pare,
sotto la gru, un vecchio e un sacerdote scavavano con un piccone tra i sassi, perchè « quel giorno »
c’erano solo sassi e niente altro. Dopo qualche colpo apparve una piccola mano: tra le dita due
pagine di un sillabario a colori, forse per la seconda elementare. Conservo a casa quelle due pagine,
a colori. E’ tutto nuovo il paese. C’è anche un’orribile costruzione in cemento armato. Una gabbia,
una casa-matta, non può essere una casa. Cinque anni dell’anima sono un secondo. La carovana,
frivola, deve essersi sentita a disagio. Io, sì. Qui il tempo ha lancette di piombo. Non piove molto,
ma sempre. A Domegge di Cadore, stop a un bar in legno. Sono le 14 circa. C’è la faccia di Piero
Chiara al Telegiornale-Sport. Dice che a Udine il clima era afoso (!); poi parla di « lepidezza », di
« augusta presenza di Coppi ». Due giorni fa gli avevo sentito annunciare che: « il giro trasvola
sulle ali della gloria ». Al bar la gente commenta: « Non ha detto una parola della tappa, non si sa
nulla ». Chiedo a Filippetti, l’autista, in che anno siamo: 1968, risponde. Bisognerà mandare un
telegramma a Piero Chiara. Avvertire anche lui.

Gimondi: « Io ho una tattica programmata, stabilita prima: non posso fare come fa Merckx ».
Merckx è talmente silenzioso (la tesi è di Ciotti) che il suo stato maggiore è angosciato: quando
il grande Eddy va a dormire, qualcuno soffoca urla di raccapriccio sul cuscino. Perchè non parli? Il
giorno che ha vinto la tappa ha dichiarato: « Avevo quasi trentanove di febbre ». Dicono che è più
guascone di un guascone vero quando annuncia le sue condizioni sanitarie. Gimondi ha
commentato ieri sera: « Se aveva trentanove di febbre quando ha vinto, allora è meglio che andiamo
a casa ». Un merckxista indefettibile ha sussurrato: « … è un’idea ». Chiaro comunque che Lavaredo

vale una tesi, non solo un ordine di arrivo. Le due grandi religioni della corsa non sono Motta e
Gimondi. No; la spaccatura è tra Merckx, faccia di mongolo, e il resto del mondo, cioè del Giro.

Merckx ha gambe lunghe, sottili, soprattutto ai polpacci. Le gambe sono di Koblet. Respira come
un asso, senza bave. Scatta sull’undici per cento di salita senza alzarsi sulla sella. Ha una tattica
irridente, che umilia. Ti precede anche al bar, al rifornimento. Come fa?! Ecco, il dubbio di chi
crede al tatticismo di Gimondi è questo: come fa?! Merckx si tocca la nuca: dice che ha male da
tutte le parti.

Ho qui una cartolina delle Tre Cime di Lavaredo, tre denti cariati, color nicotina. Il ghiaione che
li sostiene è molto chiaro. Cielo azzurro, atmosfera di ciclopi sereni. Nella cartolina. Ma oggi ci
sono i fuochi accesi con sterpaglie lungo la strada. Nebbia fitta. Gelo che passa tra i vetri della
macchina. Gente intirizzita che urla per vincere l’inverno. Un alpino ogni dieci metri, da un lato e
dall’altro. Alpini anti-spinte, si dice. L’asfalto è attaccato dal nevischio, si slitta.

Penso alle mani di Merckx che si tocca la nuca, ai suoi mali. Povero Eddy, questa sera sarai steso
come un panno fradicio sui tre denti cariati. La strada fa tornanti da cordata: strappi controllati da
diciassette per cento secchi. Sono con colleghi su una Giulia Ti. In prima, sterzando, a fatica. In
testa, corridori, che non contano per il risultato del Giro. Merckx respira profondo, dà un’occhiata di
mezz’occhio, sceglie un tornante. La mano sul cambio che è un acceleratore. Uno spettacolo fisico
sensazionale. Non un colpo a vuoto, tornanti tagliati da ingegnere, un ritmo da superasso. Gino
Bartali non è lontano: ha capelli brizzolati, una pancia visibile, è un aneddoto in persona. Lo guarda
dal finestrino. Nei pedali di Merckx ci sono piedi e ombre di anni e anni. Eddy non è lì per caso,
con quei rapporti, con quella compostezza di Coppi.

Sorpassa tutti finchè una coperta riscaldata non lo annega con i suoi distacchi, le sue umiliazioni,
il suo spudorato dominio. Ha cominciato a scattare a Campione d’Italia, sta scattando ancora. Come
fa? Oggi non lo chiedono più i critici. Se lo chiede Lavaredo. Una « penna nera » con la barba
immersa nella grappa e scarponi: « Sì, a piedi — sussurra —, ma in bicicletta, con questo
frizzantino! Sono bravi anche gli ultimi, poareti ».

Il bollettino medico di Frattini dice: « Scalata aspra, soprattutto per una generazione ciclistica
che corre intensamente da febbraio, dopo un altro mese di allenamenti: non sempre le riserve di
energie organiche restano a disposizione, assi compresi. Un po’ di sole non guasterebbe, da ora, agli
atleti. Che atleti occorre essere per finire simili gare ».

Ma non c’è stata una spinta. E ha vinto l’asso. Straniero? A duemilatrecentoventi metri di quota
che senso ha pensare alle cinque consonanti di… Merckx? Il sole, un altro giorno. Intanto, grazie
Eddy, di cuore, mentre qui in cima la neve scende sempre più fitta.