2000 giugno Così lontane, così vicine. Grandi

2000 – Così lontane, così vicine. Grandi.
La tradizione contro il calcio totale
E il pallone è lo specchio dei popoli

Se vuoi conoscere un popolo, mettigli un pallone tra i piedi e capirai quasi tutto. Il più
bravo studioso di gesti umani, Desmond Morris, considerava il gioco un “rito” in
piena regola, e la partita un rito di massa, “una guerra senza sangue”, diceva. In
novanta minuti, il pallone viene colpito 2.200 volte, un po’ di più nelle partite tirate un
po’ di meno in quelle mosce. Per ragioni storiche diverse, Italia e Olanda non sono
fatte per le mosce.
Gli olandesi sono gli ultimi arrivati in Europa. Ancora negli anni Cinquanta
mettevano in circolazione un solo asso, Faas Wilkes, che riusciva a dribblare in un
kleenex, meno che in un fazzoletto. Giocava nell’Inter di Benito Lorenzi, detto veleno,
il centravanti che all’orecchio del proprio stopper sussurrava: “Sai dov’è adesso tua
moglie?”.
Se confrontiamo i rispettivi curricula, non ci sarebbe partita. L’Italia diventa bi-
campione del mondo fin dagli anni Trenta, ha una tradizione quasi pari a quella del
Brasile. Di Pelé sappiamo tutto mentre degli incanti di Meazza sopravvive ormai
soltanto la cineteca: però, chi ha giocato con lui ha anche raccontato delle cose
straordinarie.
Un giorno Annibale Frossi, grandissima ala destra di patria friulana, mi ricordò una
scommessa tipica di Meazza: con tre tiri dal limite dell’area di rigore, sarebbe riuscito
a far volare il baschetto nero posato come un merlo proprio sopra la traversa quadrata
di allora, all’incrocio della porta. Frossi mi giurò d’aver perso la scommessa al
secondo tiro, quando la carezza di Meazza portò via il basco, zac.
Viene da lontano il nostro talento. I Nesta, Totti, Del Piero, Baggio, Maldini, e un
sacco ancora, sono radici di un folto albero genealogico, dai Meazza ai Valentino
Mazzola, fino ai Rivera e ai Paolo Rossi. La scuola c’è e si vede, anche quando il
nerbo abbandona l’estro e lo vanifica.
La disperazione di Giuànbrerafucarlo era appunto di tipo morfologico e mentale.
Troppa polenta alle spalle e poche proteine; troppo struggimento del vivere; troppo
inferiority complex. Troppi abatini in bella calligrafia, pochi rombi di tuono come
Gigi Riva. insomma, più mammismo che etnos.
Più che pusillanimità, il difensivismo è dunque realismo e il contropiede la cavalleria
dei poveri. Anche se non so dare una spiegazione plausibile, è curioso che a inventare
il catenaccio, suppergiù negli stessi anni, siano stati un triestino e un veneto, Nereo
Rocco e Gipo Viani da Nervesa della Battaglia, un uomo di frontiera e un “razza
Piave”. Forse, arrischio un’ipotesi, gente che aveva visto da vicino, in prima linea,
tutte le ferite, tutti gli orgogli, i cedimenti e le riscosse degli italiani. Il calcio come
biografia di una nazione, la risposta alle Caporetto dell’anima.
Che i tempi siano cambiati lo si legge in faccia a Cannavaro, truce fin dal cognome. È
un esemplare nuovo, che non si fa sfiorare nemmeno dallo spleen, figuriamoci dai
complessi: da quando il campionato italiano è diventato una sezione dell’ONU, questi
non hanno più paura di nessuno. Più che giocare “con” gli stranieri, sono gli italiani a
sentirsi “stranieri”, dall’Inter alla Lazio, dal Parma al Milan, dalla Fiorentina alla Juve.
La pellagra mentale è sepolta nella memoria e non nuoce più.
L’Olanda non ci assomiglia in niente. Sbuca fuori dal nulla, anzi da un lungo e
silenzioso lavoro, soltanto nella seconda metà degli anni Sessanta, ma ha già inciso
epoche: la prima, dei Cruijff; la seconda dei Van Basten; la terza, dei Kluivert,
Davids, Bergkamp, Stam, Zenden, l’oggi.

Una volta a Belgrado ho chiesto a Giovanni Cruijff quando avrebbe smesso di
giocare. “Quando avrò in banca due miliardi e mezzo”, mi rispose.
L’Olanda che conosciamo è sempre stata come il suo fiorino, ricca, sicura di sé,
narcisista, edonista, presuntuosa, spaccona. Dunque fantastica: se ingrana, scoppia di
salute come i suoi cavalli frisoni. Se eccede in sicumera, perde la nozione del rischio.
Con un quarto dei nostri abitanti e un settimo del nostro territorio, ha insegnato il
calcio totale. La sua bibbia dice che i bambini devono allenarsi a sentire il pallone fin
dai cinque anni, che il campo deve essere occupato tutto, che difesa e attacco non
debbono mai distanzarsi più di 30 metri. Il loro calcio è una cultura, un allenamento,
una visione tattica. Un teorico, Wiel Coerver, diceva: “Correre è noioso, giocare
divertente”.
In Germania, nei dintorni di Gelsenkirchen, ho visto l’Olanda allenarsi nel 1974: uno
spettacolo che non dimenticherò mai. Un po’ l’architettura degli spazi, un po’ la marcia
nuziale del gol.
Italia-Olanda è storia. Anche perché il calcio olandese ha spinto tutti a prendere
coraggio e a non spiare il gol sempre dalla serratura, come guardoni passivi.