1999 maggio Ulisse 2000 Rovigo

1999 maggio
Ulisse 2000
La città sul delta

Rovigo ha legato la sua storia e la sua fortuna ai fiumi che attraversano il veneto.
Con il 2000, più che entrare nel terzo millennio, Rovigo festeggerà il suo primo, o poco più. Rodigo
nasce come minuscolo borgo rurale, che ancora nel 1200 aveva meno di tremila abitanti. Diventò
ben presto pied-à-terre di campagna degli Estensi, signori di Ferrara, amanti di ogni delizia del
vivere, cucina afrodisiaca compresa. Si tennero Rovigo finché i veneziani, padroni naturali del
Veneto, non decisero di prendersela anticipando lusinghe degne di una “tangentopoli” d’altri tempi:
la serenissima, che sempre trovò ineleganti i bagni di sangue, corruppe i mercenari al soldo dei
nemici, ed era fatta, senza colpo ferire. Passeggiare in piazza a Rovigo è come leggere un sintetico
“Bignami” di storia, con palazzi estensi e veneziani a fronteggiarsi e a lanciare occhiate secolari.
La bandiera culturale della città è l’Accademia dei concordi, sua goccia di sangue blu, fornita di una
Pinacoteca che mostra 200 opere, da Giovanni Bellini a Palma il Vecchio fino Piazzetta, lungo tre
secoli di grande pittura veneta, e non solo. Un nudo di Jan Gossaert, “Vanitas”, ritrae allo specchio
un volto e un corpo sessualmente d’ombre, quasi un’attrice in versione rinascimentale, ma ho
pensato che né lo specchio né la vanità possono simboleggiare Rovigo. Anzi, mai una città ha
provato a scrollarsi di dosso tanti complessi e tanto indugiare in un solo colpo. Semmai, preferisce
dimenticare.
Rovigo depressa, Rovigo “incolta”, Rovigo alluvionata come il suo Polesine nel 1951. Rovigo
urbanisticamente sventrata o interrata. Rovigo a lungo marginale rispetto al neo-Eldorado del
Nordest; Rovigo dignitosamente agricola ma tanto povera e ribelle da far parlare in una lapide
cittadina di “turbe squallide di contadini”. Questa Rovigo non affiora più; per riportarla alla luce,
bisognerebbe ormai scavare come gli archeologi nella vicina Adria, davanti al suo mare di famiglia
a caccia di reperti etruschi e romani.
La Rovigo di oggi è tutt’altro che fossile. L’anno scorso il Teatro Sociale ha dato spettacolo per 140
serate. Concerti, balletti, lirica soprattutto: “La passione per il melodramma di tutta la valle del Po”,
annotava lo scrittore Guido Piovene. Tradizione ma anche innovazione, con qualche opera di lirica
sperimentale, come dire una cultura di fermenti in un teatro tecnologicamente all’avanguardia anche
se il suo titolo aureo, meglio di un cinque stelle, sta scolpito all’ingresso: “ Inaugurato da Pietro
Mascagni” in persona con il suo Iris.
Ha 51 mila abitanti Rovigo, non emigra più, restaura e recupera a più non posso quartieri, mercati,
monumenti, porte, conventi, opifici di archeologia industriale. Uno dei sette capoluoghi provinciali
del Veneto, oggi è più città di ieri nel nome di un’anima laica, e gelosamente civica, che mai l’ha
abbandonata, nemmeno dei momenti più duri. Forse non a caso la sua settecentesca “Rotonda” é
insieme Chiesa e patrimonio comunale come fu opera di devozione popolare e investimento dello
Stato veneto, ringraziamento alla vergine del soccorso dopo la pestilenza e luogo cui fanno
riferimento le coordinate astronomiche della città, culto religioso dunque e allo stesso tempo civile.
Sono passati 17 ordini religiosi a Rovigo, e si vede dalle chiese anche piccole chiese, sobrie e belle,
ricche di segni e di arte. Ma la “Rotonda” è il gioiello, un ottagono dentro il quale ogni decorazione
si fa architettura e da dove nessun pezzo potrebbe andarsene senza mutilare il tutto. Qui anche lo
sguardo si posa barocco sull’altare ligneo .
Questa è una terra di fiumi, di canali, anche di fiumi invisibili, che la natura o l’uomo ha deviato,
scavando nuovi letti e riempiendo vecchi corsi, tanto che solo la fotografia aerea riesce a volte a
svelarne la memoria. Il sindaco di Rovigo, Fabio Baratella, la definisce “la Mesopotamia
d’Europa”, stretta tra l’Adige e il Po.
È un’inversione di marcia. Nel passato un incubo, ora i fiumi sono sentiti come un patrimonio
economico da calcolare in Euro, vera e propria risorsa anche per l’habitat e per il turismo.
Entro la prossima estate una nave caricherà cento Tir e, lungo il Canal Bianco, li farà giungere al
mare, potendo trasportare auto, marmi, granaglie, materiali pesanti sulle rotte dell’Africa, del Mar

Nero o dell’Est. Sarà il battesimo del nuovissimo interporto, 147 ha attrezzati per le imprese lungo
una trama d’acqua che dal mare risale fino a Mantova, Pavia, Milano, attraverso le antiche,
razionalissime idrovie padane.
Nasce anche il Museo dei Grandi Fiumi, utilizzando l’ex monastero dei frati Olivetani, uno
splendore del ‘600, di seimila metri quadri. Il suo dormitorio lungo 80 metri, detto non per nulla
“manica lunga”, sembra incanalare alla perfezione l’idea fluviale. Il museo sfrutterà tutte le
ultimissime trovate della tecnologia virtuale per simulare a ritroso millenni e millenni di vita dei
fiumi, la loro civiltà, le loro violenze, la loro amicizia, i loro nutrimenti. E saranno i “grandi fiumi”
del mondo a ritrovare a Rovigo, a due passi dal Po e dell’Adige, una moderna “via dell’ambra”: dai
commerci del mito allo scambio contemporaneo dei saperi. Il Museo sta per decollare, come la
Fiera o un’appendice dell’università di Padova.
Ciò che diventa impossibile è immaginare Rovigo separata dei suoi fiumi, del Delta del Po
soprattutto. Questa è una terra dove città e provincia si tengono insieme più che altrove.
Il Delta è anche un set, una pagina letteraria. È l’ultimo episodio di Paisà di Rossellini, una
sceneggiatura di Zavattini, e Olmi. È il racconto di Bacchelli, Zanotto, Celati, Cibotto.
A un’ora di auto dall’aeroporto di Venezia, il Delta è diventato “parco”, tutelato con la benedizione
dell’Europa: tra i settanta presentati, il suo piano d’area è stato considerato il migliore appena
cinque mesi fa, preferito quelle di Barcellona e Stoccolma perché garantisce l’ambiente senza
scoraggiare l’economia. Riceve circa tremila visitatori al mese, ed è appena agli inizi. Si popola di
ostelli, di itinerari, di servizi paesaggistici, di progetti Unesco e sarà anche una sorta di galleria a
cielo aperto della Land Art, che equivale a fare arte utilizzando gli elementi della natura, come sa ad
esempio Gio Pomodoro.
È un amore il Po, un modo di pensare, un’idea del vivere. “Un mondo vecchio sempre nuovo” ,
scrisse Riccardo Bacchelli nel suo sterminato mulino del Po, bibbia del fiume. “Fiume onesto”, lo
chiamava Gianni Brera, scrittore lombardo e rivaiolo, perché “usa togliere e dare imparzialmente”,
dal Monviso a Pila, sul Delta. Persino la gondola veneziana, a detta di Brera, altro non era che la
sublimazione cittadina e mondana del battello padano.
Nella sua casa di Rovigo, arredata di soli libri, G.A.Cibotto avverte che se il Po è un mondo, il
Delta del Po è un mondo del nel mondo. Parla di questa terra come altri scrittori, Commisso della
sua Treviso o Pasolini del suo Friuli, e sembra rivolgersi a un turista del 2000 quasi per fargli da
guida, da tour operator della mente e del cuore.
L’ho ascoltato. “Scendere lungo l’Adige verso il mare – racconta Cibotto – è come guardare da un
palco di teatro. Ma entrare nel silenzio del Delta del Po è come entrare in un’altra idea del tempo: il
tempo lento il suo segreto, la sua libertà. Prova a dare un bacio alla tua donna nell’aria del Delta e
prova Milano: capirai tante cose, quasi tutto, e forse t’illuderai di sognare”.
Rovigo sogna con il Polesine sul Delta, investe sull’Interporto e dei grandi fiumi fa museo e cultura.
Come ai tempi dell’Accademia, sono tutti Concordi, ma nel dire che “la miseria non viene più in
barca”.
È cambiato tutto, anche la corrente.