1999 Il cielo sopra la Fenice

1999 – Il cielo sopra la Fenice

Tre anni fa giusti, la Fenice moriva per il fuoco innescato nel ridotto del loggione tra le 20 e 20 e le
20 e 50, “con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso”.
Lo svelò l’ordinanza del magistrato Casson, indicando nomi e cognomi.
Inesprimibile quel buco nero lasciato nel cuore di Venezia. Se il violoncello di Rostropovic scandì
la rovina del Muro di Berlino, forse soltanto Giuseppe Verdi potrebbe cantare le rovine del Teatro
per il quale compose Attila, Ernani, il Rigoletto.
Allora Verdi aveva alle calcagna la polizia austriaca, oggi dovrebbe tener conto dei ricorsi al Tar e al
Consiglio di Stato, dei bandi lunari e degli appalti-concorso che l’avvocato Sergio Camerino
definisce “scivolosissimi”: rischierebbe di più oggi e, forse, gli mancherebbe l’ispirazione per un’
opera.
Ma non è un requiem per la Fenice, nonostante tutto, nonostante lo slalom gigante tra regolamenti
edilizi e strumenti urbanistici. Se fu un record aprire il cantierenel giro di un anno (“tempi europei”,
precisa Cacciari); se fu un ko il blocco totale dei lavori (“un baratro spalancato sotto i nostri piedi”,
ricorda il sindaco), ora l’ennesimo labirinto sembra scongiurato. Sembra.
Il puzzle urbanistico è risolto: prefetto e istituzioni ce l’hanno fatta. Il contenzioso tra imprese si
rassoda, almeno tra Impregilo e la tedesca Holzmann, anche se Cacciari – come tanti – prende le
sue precauzioni: “Speriamo che il diavolo non ci metta un’ ultima zampina”.
Palese il riferimento ad un possibile, “probabile” secondo qualche esperto, ricorso della terza
impresa in lizza, la Carena di Genova, con il progetto di Gino Valle.
La verità è che non sempre i guai dipendono dal destino cinico e baro. Questo è il paese dei mezzi
poteri, delle deroghe presumibili, dei decreti governativi interpretabili, delle prudenti responsabilità.
E la Fenice paga.
A Bilbao si prende un grande architetto, si sceglie tra idee e progetti, e si attribuisce l’incarico per il
museo Guggenheim.
Ma la Spagna non è l’ Italia, Venezia non è Bilbao, e dunque la burocrazia di Stato optò allora per
gli strumenti più burocratici. I sentieri “scivolosissimi” sono una libido e permettono di scegliere il
meno possibile: l’uovo del contenzioso nasce qui.
Se non bastasse, il resto lo fa il cancro della retorica. Piangono sulla Fenice lacrime che, quella
notte delittuosa, avrebbero potuto spegnere l’incendio, ma poi si dimenticano che la Fenice
continua, che la Fenice è anche un’azienda di quattrocento dipendenti e che i conti economici del
Palafenice al Tronchetto non potranno tornare mai, perché il pubblico veneziano aspetta la “sua”
Fenice e perché non si può far pagare il Palafenice come la Fenice vera.
Queste cose le sanno tutti eppure, della ripartizione dei fondi statali per lo spettacolo, Venezia non
ha ricevuto nessuna lira di più. Zero.
Ricostruire in fretta è rivivere e vivere. I cento miliardi ci sono, ma lasciare il cantiere così vuol dire
degradarlo, altri costi, altre lentezze, altre amarezze per una città che continua a volere la Fenice
“com’era dov’era”.
Se toccherà all’impresa Philip Holzmann, rivivrà con coerenza quella era stata proprio la filosofia
del suo progettista, l’architetto Aldo Rossi. Aveva detto: “ La Fenice va rifatta così com’era, non
come monumento in sé, ma come metafora di Venezia, che va sempre conservata così com’è.
Venezia dev’essere il museo di se stessa, è bella così; se bruciasse il caffè Florian, andrebbe rifatto
com’era dov’era”.
Il professore aveva capito, più di chiunque.
Si, resta un simbolo di tante cose la Fenice. Anche dell’umore di Venezia: lo può deprimere o
esaltare. Se si riparte dalle sue macerie, è come posare la pietra di un’altra storia. Ma se la Fenice si
impaludasse ancora come il Mose, ne uscirebbe scoraggiata un’impalpabile energia. E’ falso che le
città non abbiano più un’anima.
Se così non fosse, i 900 “amici della Fenice” non avrebbero speso un miliardo per rifare il corredo
musicale, un po’ per volta. Due pianoforti gran coda, da 120 mila marchi l’uno, due mezzacoda, un

clavicembalo: “ Le attività devono andare avanti”, intima Barbara di Valmarana.
Penso a quel che mi fece osservare un giorno un nobile veneziano, ricordando che negli Stati Uniti,
quando si gioca a poker senza limite di puntata, si dice: “Sky is the limit”, fino al cielo insomma.
Lui sosteneva che Venezia avrebbe dovuto scuotersi di dosso Mahler, Mann e Visconti, e dirsi
finalmente “sky is the limit”. Non so se sarà vero, ma sono sicuro che senza Fenice quel cielo non
apparirà.
In due anni si potrebbe.