1999 Aprile 27 Abbasso l’impresa

1999 Aprile 27 – Abbasso l’impresa

Di chi la colpa se l’economia batte in testa? Ma degli imprenditori, naturalmente, colpevoli di
andare in giro per il mondo con i capitali e con gli stabilimenti. Questa è l’ultima di una infinita
serie di accuse in un Paese capitalista per convenzione non per cultura.

Ovvio che il convento degli imprenditori passa un po’ di tutto, ci mancherebbe altro, ma chi limette
clinicamente in croce dovrebbe spiegare cosa pretende da loro in questo preciso momento. Sono
anni e anni che politici, banchieri, esperti, opinionisti, economisti, analisti, barbieri e ballerini,
spigano all’unanimità che bisogna competere a tuttocampo , spalancare i mercati, tuffarsi nel
globale, mondializzare la finanza, far circolare liberamente capitali, merci, anche uomini,
cancellando per sempre protezionismi, autarchie, dazi, controlli, statalismi, lacci e lacciuoli agli
scambi, e adesso, sul più bello, che cosa mai si pretende dagli imprenditori che si sono adeguati in
fretta e furia? Non so, nessuno lo spiega, nemmeno Ciampi, che pure ne sa.

All’inizio degli anni ’90 quando anche l’Italia, storicamente ultima su questo piano, cominciò ad
esportare alla grande capitali di impresa, piovvero elogi da tutte le parti perché finalmente gli
imprenditori dimostravano “una maggiore maturità anche culturale”.

Semmai, in quel tardivo ma sostenuto ingresso nel “club degli investitori” multinazionali, si faceva
notare che purtroppo il fenomeno riguardava sempre le stesse società e, anzi, le stesse famiglie.

Ora, di tempo ne è passato, è successo di tutto, anche che si vada all’estero con l’impresa. A volte la
delocalizzazione testimonia sviluppo, globalità, un disegno in testa; a volte, un semplice calcolo di
convenienza, più di giornata e meno strategico. Dipende.

Non occorre essere dei premi Nobel dell’economia per intuire perché, soprattutto nel settore
manifatturiero, ci siano già settemila aziende italiane in Romania, quattromila delle quali venete,
Treviso in testa. Dice Mario Carraro: “Una volta c’era l’emigrazione del lavoro, oggi della
produzione”.

Una classe dirigente deve chiedersi perché accade in massa. Deve domandarsi perché il Sud non
risulta ancora attraente. Deve spiegarsi perché la piccola impresa, nerbo della nostra economia,
continua a sentirsi come straniera in patria.

E’invece ridicolo fare la predica. Patetico appellarsi al patriottismo d’impresa. Infantile lamentare
ora gli scarsi investimenti ora l’altrettanto presunto “egoismo” degli imprenditori. Anche l’etica del
capitalismo respira il contesto.

Il ministro Visco dice che le tasse sono nella media europea. Riccardo Illy, imprenditore, sindaco,
della stessa area politica di Visco, dice: “Il primo dei sette handicap che abbiamo è l’elevata
tassazione dei redditi d’impresa”. Gli imprenditori fanno i conti veri e, alla fine, sono tutti con Illy.

O Visco non la dice tutta o non la dice bene, ha un difetto di comunicazione. Sta di fatto che le
gigantografie dell’on. Berlusconi per le elezioni europee sparano: “Meno tasse”. Se lo dice Fazio è
vangelo, se lo dice Berlusconi è demagogia?

Non sono i paradisi fiscali a depistare gli imprenditori d’Italia.

In Romania il costo del lavoro, in Irlanda le aliquote, in Francia la burocrazia, in Germania i servizi,
e via di questo passo: per un parametro o per l’altro, è il sistema che non diventa abbastanza
competitivo.

E le imprese, come è noto a tutti, non possono attendere: avolte se ne vanno con i capitali, a volte
con le partecipazioni, a volte con la produzione.

Qualcuno si allarga, qualcuno scappa, c’è di tutto. Le imprese non sono né sante né carogne:
soltanto globali, come le abbiamo volute. Loro fanno quel che devono, altri ancora no.