1998 settembre 13 Ma cosa vogliono i Veneti dal Senatùr

1998 settembre 13 – Ma cosa vogliono i veneti dal senatur?
La parata si fa a Venezia, il presidente della Lega è Stefani di Vicenza, il premier del governo padano
sarà la Dal Lago di Vicenza: ma insomma si può sapere cosa vogliono ’sti veneti da Umberto Bossi?
Hanno tutto, immagine e cariche, ma se pensano anche di essere più volpini di Bossi, si sbagliano di
grosso, ancora una volta. Lui lusinga e frusta, seduce e mette in riga, radia e candida, fa quel che gli
pare. Nella Lega Bossi non ha il potere, è il potere. Dipende dal fatto che la Liga veneta non esiste più
o, meglio, è un concetto vuoto. Oggi esiste soltanto la Lega Nord, tutto il resto serve da arredamento,
compreso il cosiddetto «Blocco padano»: alzi la mano chi ha capito di che si tratta. Secondo me, in
privato non la alzerebbe nemmeno Bossi, che è troppo smagato per credere a tutto quel che dice. La
Lega è un partito che ha struttura, gerarchia, militanza, e tutte portano a Bossi. Non c’è in Italia un altro
partito più concentrato nel proprio leader, nemmeno Forza Italia. Bossi nasce senza la tv, Berlusconi
senza tv non sarebbe nemmeno partito. La Liga veneta può paragonarsi a un titolo araldico. Ha tanti
voti, ha tradizione, ha fatto scuola: prima e dopo i «serenissimi», ha fatto funzionare anche la saldatura
tra protesta (del Nord) e autonomismo (del Veneto). Nonostante tutto questo ben di Dio, non controlla
nulla, né linea politica, né macchina, né giornale, né finanziamenti, né sedi di partito. Qualche carica
per lustrino, ma politicamente è nullatenente. Gianfranco Miglio ha sempre sostenuto che i lombardi,
troppo presi dagli affari e dal mondo, non sono tagliati per diventare uomini di Stato. Bisogna però
riconoscere che i lumbard, o lombard direbbe il professore, sono bravissimi come uomini di partito: nel
male e nel bene, un Bossi alla veneta non sarebbe nemmeno immaginabile, anche se qualche volta ci
prova Galan, ma l’aspetto più interessante di tutta la faccenda è che soprattutto i veneti ne sono
arciconvinti. La loro devozione non fa una piega, al massimo mormora rigorosamente in confessionale,
mai in pubblico, quando proprio non ne può più. Questo giornale ha pubblicato ieri la dichiarazione di
un dirigente veneto, fedelissimo leghista, che vale cento articoli di fondo. «I veneti – ha comunicato –
lavorano e tacciono». Appunto. L’ultima occasione per restare autonomi, cioè per tenere un ruolo forte
e originario all’interno del movimento leghista, la Liga veneta se la giocò con il secessionismo.
Abboccando all’idea di Padania, la Liga unificò per così dire la Lega sulla pelle del federalismo,
tagliato invece su misura per il Veneto dell’autonomia, dello statuto speciale, dei riformisti, dei
moderati, degli stessi «serenissimi», per non parlare dei «sindaci dei tombini» come sferza i suoi Bossi
accusandoli di eccesso di amministrazione e di carenza di ideologia. Rinunciando al federalismo senza
battere ciglio, come se non le fosse mai appartenuto, la Liga veneta si dichiarò assorbita. Accettava con
ciò anche un criterio di fedeltà e di ortodossia tutto fondato sul parametro dei «duri e puri», della
«camicia verde», dell’«unità padana», finendo con il pagare un paradosso senza precedenti, da guinness
dei primati: proprio il movimento sorto nel nome dell’autonomia del Veneto si scopre oggi meno
autonomo che mai, preda di contraddizioni oramai croniche. Non Bossi ha inventato il caso Veneto; il
Veneto ha fatto tutto da solo. La debolezza della Liga veneta non può essere infantilmente imputata alla
sola forza di Bossi, ma anche a una buona dose di opportunismo legato alle carriere, alle candidature,
alle nomenklature, ai favori del Capo. L’autonomia costa un occhio della testa. Un anno fa, Venezia
annunciava «via dall’Italia»; oggi sussurra «con Cossiga», che in Veneto può voler dire anche «con
Bernini». Accade sempre a Venezia, ma è come se capitasse altrove, questo il guaio per Comencini.
13 settembre 1998