1996 agosto 14 Un patto per il Paese

1996 agosto 14 – Un patto per il Paese
La domanda cruciale è una sola: in questi anni la Lega Nord ha urlato questioni vere o finte, reali o
virtuali? Inutile far melina, la questione sta tutta qui, ed è nazionale, non padana. È impensabile che in
un’area europea, di primo mercato, si possano raccogliere quattro milioni di voti sul nulla. Così fosse,
non servirebbero denunce né manganelli, basterebbero le risate a sostituire i tribunali. Ma le cose non
stanno così. La questione settentrionale scotta, eccome!, simmetrica alla meridionale come gli
osservatori più scrupolosi segnalano da tempo. Se esiste, metterla sul piano dell’ordine pubblico
equivarrebbe a confessare il contrario della prova di forza. Semmai, la povertà di argomenti forti,
politici. La «troppa pazienza» denunciata da Di Pietro è il prezzo cronicamente pagato allo scarso,
scarsissimo coraggio riformista. Umberto un’idea forte ce l’ha: la secessione. Tragica ma forte, più
insinuante come suggestione che come proposta, frutto avvelenato di un sottosuolo dove la protesta si
intreccia con il moderatismo, dove il malessere sconfina nell’intolleranza. Gli incubi nascono sempre
ambigui. La storia degli anni novanta dà una mano a Bossi. L’ideologia ha fatto a pezzi le sue creature
imperiali (urss, Jugoslavia) rigenerando Stati nazionali uno dopo l’altro; l’economia globale spinge a
nuove aggregazioni (Europa) indebolendo vecchi e nuovi Stati. Nella cultura europea, dall’Atlantico
agli Urali, l’idea dello Stato è percorsa oggi dall’instabilità. «Il mondo frantumato», lo chiamerebbe
Giovanni Spadolini. È in atto la grande ristrutturazione istituzionale europea, e Bossi ha il fiuto del
segugio. Annusa la fragilità dello Stato unitario alle prese con la modernizzazione e in cammino da
Yalta (che lo garantiva) a Maastricht (che lo espropria). Un’Italia da reinventare. Bossi non ha
nemmeno bisogno di confezionarsi una teoria. La prende a prestito dalla realtà. Gli storici disossano il
Risorgimento, gli intellettuali lamentano la perdita di identità nazionale, gli economisti misurano il
crescente divario tra Sud e Nord, i politici confessano senza mezzi termini l’inefficienza della
macchina statale, i sindaci dimostrano nei fatti i danni del centralismo, i giovani disconoscono a questo
Stato il titolo a promuovere il senso dello Stato, l’opinione pubblica invoca – sia pure in modo generico
e non di rado confuso – il cambiamento da toccare con mano. Bossi ne ha fin troppi di argomenti da
manipolare come dinamite, tagliati su misura per dare visibilità all’uscita dal sistema. Sfrutta la
«pazienza». Non gli serve inventarsi fughe in avanti. È già scappato, e ci crede. L’eroe fai da te.
Quando ribalt il governo Berlusconi, Bossi pag prezzi altissimi soprattutto in termini di potere, un
salasso di auto blu, perse ministri, sottosegretari, commissioni, deputati, postazioni in rai. Fece nel
1994 ci che, con truce coerenza, aveva promesso nel 1993 concludendo l’autobiografia dettata a
Daniele Vimercati: «Non governeremo per occupare lo Stato, ma per fare la rivoluzione». Se le cose
stanno così, e così stanno, c’è un solo modo di sventare la rivoluzione secessionista di Bossi. Fare la
rivoluzione federalista, ma farla, non dirla. La parola chiave torna a essere «risposta». Occorre dare
risposte, rispondere politicamente, anzi recuperando alla parola la sua radice più antica, di «promessa»,
di «impegno». Un patto per e con l’Italia. Nel dire questo si scopre l’acqua calda, non fosse che
federalismo e risposta si riducono spesso a giaculatoria, un passe-partout che apre troppe porte per
imboccarne con decisione una. A chi va data risposta e quale: ecco il nocciolo. Risposte vere
perché i problemi non sono finti. A Mantova non c’è un parlamento, ma un sismografo sì. Le risposte
non vanno date a Bossi, come si equivoca da qualche parte. Non si risponde per via politica al
secessionismo, che taglia i ponti con qualunque politica. Va data risposta al federalismo, decidendone il
livello, il contenuto, la profondità. È scandalosa la finzione di un federalismo buono per tutti gli usi, per
lo più minimali, una dea Kalì a troppe mani. Se si crede che il secessionismo sia il gioco senza frontiere
dell’estate di Bossi, allora perché chiedere fermezza al ministro dell’Interno? Ma se si considera

fondata la minaccia, allora non si va nemmeno in ferie con la politica. Vi si lavora a tempo pieno.
Dietro l’eliminazione della bolla di accompagnamento, dev’esserci un’idea di Stato, non l’abrogazione
di una scocciatura contabile. Dietro il garante del fisco, una rivoluzione della cultura amministrativa: da
sudditi a cittadini. È suicida consegnare a Bossi il monopolio dell’idea forte dello Stato, uno Stato per
conto suo, favorito dal vecchio! Quando la storia si mette a correre, raddoppiano le opportunità, non
soltanto i rischi. Con il federalismo, l’Italia s’imbatte oggi in un’occasione irripetibile, perché ne ha
urgenza tanto il Nord quanto il Sud. Il Nord economicamente competitivo per disporre anche di uno
Stato competitivo. Il Sud per investire sulla responsabilità dopo il lungo saccheggio clientelare. Mai
l’interesse fu altrettanto reciproco, nudo di retorica unitaria, carico di plusvalore economico. E di pace
civile, bene primario. Usciamo soltanto ora da un lunghissimo tunnel. Che cosa signific la democrazia
bloccata dal fattore comunista se non una sospensione di sovranità. Che cosa provoc la partitocrazia se
non la messa in mora dello Stato. Che cosa indusse Tangentopoli se non il sovvertimento privato del
denaro pubblico. Oggi, soltanto oggi, l’Italia è pienamente libera di darsi la riforma radicale dello
Stato. Questa la sola risposta che pu funzionare, dal Nordest al Sud. Ha calcolato il professor
Mannheimer che la Lega Nord, oggi al sette per cento a livello nazionale, disponga di un voto
potenziale pari al tredici per cento. La risposta federalista riuscirà a togliere quel tredici per cento, o
buona parte di esso, dallo scomodo dilemma tra Roma o Bossi, tra burosauri o secessionisti. Ma una
bolla non fa primavera. Ci vuole ben altro, siamone certi. Incerto è il destino di un Paese costretto a
misurare la «pazienza».
14 agosto 1996