1972 settembre 11 Ancora due voli degli eredi di Nurmi

1972 settembre 11 – Ancora due voli degli eredi di Nurmi

Tutti I primati di affluenza sono stati certamente battuti a Monaco nell’ultima domenica delle
Olimpiadi, vigilia della cerimonia di chiusura. Fin dalle prime ore del mattino una folla
numerosissima servendosi di tutti i mezzi di trasporto disponibili ha cominciato ad affluire negli
stadi dove si svolgevano le competizioni in programma, quasi fosse una sagra paesana.

L’ atmosfera serena che si poteva vedere sugli spalti mancava l’interno del villaggio, un pò per la
presenza della polizia ed un pò perché in tutti era vivo il ricordo della strage di martedì. Davanti alla
palazzina di Connolly Strasse 31, dove alloggiava la rappresentativa israeliana, sono stati depositati
ancora mazzi di fiori rossi legati con nastri neri: sulle porte dell’ appartamento degli israeliani non
sono stati tolti i cartellini indicanti i nomi delle persone che le occupavano.

L’ultima giornata delle gare atletiche ha visto l’assegnazione delle restanti nove medaglie d’oro. A
conferma di una eccezionale scuola, i finlandesi si sono aggiudicati, oltre i 10 mila, anche i 1.500 e
i 5 mila con Vasala e Viren. Due i successi sovietici: con la formidabile sovietica Melnik nel disco;
con Tarmark nell’alto maschile; due quelli americani: la staffetta maschile 4×100 e la maratona con
Shorter. Alla Germania Ovest è andata la 4×100 femminile, alla Germania Est la 4×400 sempre
femminile. Infine assenti gli Usa per la nota squalifica di Matthews e Collet, affermazione dei
keniani nella 4×400.

I 5000 del poliziotto

Sono in 13 nella corsa che fu il paradiso di Zatopek, Kutz e Clarke. Non fa caldo, il cielo è coperto.
Non parte lo spagnolo Haro. Bedford ha tagliato i lunghi capelli: impiegato in una cartiera di
Londra, cerca oggi almeno una restituzione parziale alla sua enorme fatica, lui che ha superato
allenamenti da autentico forzato del record, cercando l’ exploit in un trotto cronometrico mai in
variazioni da “ sprinter fondista” .

Primo ad andare in testa il russo Sviridov, con due inglesi ( il terzo è Bedford) ai talloni, Lasse
Viren, l’oro dei 10000, tiene l’ultima posizione. Andatura non sensazionale: il passaggio ai 1000
metri avviene in 2’46’’4. Biondino, barbetta lieve, asciutto come il sole come gli scandinavi sono,
Viren porta in testa la maglia di Finlandia ( scritta “ Suomi ” ) ai 1600 metri.

Hai 2200 metri, le zampate di Bedford sul tartan danno il cambio all’armonia di Viren.

I 3000 trovano uno spagnolo, Alvarez, a tirare il gruppo.

Ancora 300 metri ed il vento passa in faccia a Prefontaine, statunitense dal basso alla Pedro
Armendariz, tarchiato, grinta di marine. Con Prefontaine, la corsa entra veramente in spirale; il
ritmo cresce; l’americano accelera anche se il volto porta segno d’affanno: non possiede né il nitore
di Viren nè l’imperturbabilità del tunisino Gammoudi.

Il più insistito in retrovia è un altro finlandese, Vaatainen, l’uomo degli “ europei” di Helsinki, la
faccia inquieta dei personaggi di Ingmar Bergman. L’avevo visto tre giorni fa in solitario training,
gli occhi attenti, Il cronometro stretto nella mano destra. Ora, arranca, svuotato, lontano dallo
splendido atleta di una stagione ancora fresca nel ricordo. La sua crisi è buia hai 4000, quando
Viren presenta invece la mascella decontratta.

Il gruppo si spacca. Nel secondo troncone si spegne Bedford. Caduto in collisione con Viren
durante i 10.000 metri il “vecchio” Gammoudi sente ora il suo momento: Vuole almeno l’argento,
qui a Monaco, dopo l’oro in Messico. L’ultimo giro è tutto suo, dondolante, la testa piegata quasi a
spingere anche di collo.

Ma la curva, prima del rettilineo d’arrivo, gli affianca l’ ombra bionda di Lasse Viren. Scatta come
un ottocentista, sciolto, inafferrabile, verso la sua seconda medaglia d’oro. Gammoudi resta
secondo. Prefontaine sente gli ultimi trenta metri con una stordente sofferenza,frena, quasi
inciampa, si piega sul traguardo per essere almeno terzo. Ma un inglese Staewart, lo supera dritto.
Prefontaine, si ferma ingobbito, ora fantasma del marine.

Le bandiere di Finlandia, croce azzurra sul bianco, sventolano davanti a Viren, nato nel 1949 in un
freddo paese pieno di boschi e di silenzio, dove una vita di chilometri, la vita del fondista, svestendo
ogni giorno la divisa di poliziotto, il suo mestiere.

Un’addio nei 1500.

Vaatainen distrutto nei cinquemila, Arese settimo in semifinale dei millecinquecento: due campioni
d’Europa, l’anno scorso, il tempo sconquassa in fretta i valori dell’atletica, soprattutto nella corsa
lunga, che soltanto con eufemismo passiamo per atletica…leggera.

Due Olimpiadi, l’oro nei millecinquecento in Messico e l’oro nei tremila siepi a Monaco, Kipchoge
Keino è uno stampo di resistenza, eccezione dalla pelle nera. Questi millecinquecento sono il suo
addio, ultimo aggancio con una medaglia olimpica.

I primi quattrocento metri sono “lenti”, i secondi più accelerati: il passaggio agli ottocento segna 2’
1’’4. Proprio mentre il tabellone fissa il tempo parziale, Keino tiene ancora il ritmo, ma gli stanno
incollate due maglie nere, neozelandesi, e soprattutto un’altra maglia, finlandese, di Pekka Vasala,
quasi gemello di Viren, anche se più massiccio e classe 1948. Anche Vasala corre disteso, privo di
stress, uscendo da un cliché irreale di equilibrio psicologico e di solidità fisica. Lo stile di Vasala è
più composto; Keino incrocia di più le braccia. Su distanze diverse, i cinquemila e i
millecinquecento, Viren e Vasala vanno a vincere nello stesso punto, la curva, l’ultima curva:
Vasala allarga in seconda corsia e sorpassa keino, come Viren aveva ingoiato Gammudi. Vince con
lunghe braccia sollevate al cielo, portando alla sua vita di impiegato uno squarcio del più televisto
spettacolo del mondo. Con Viren e Vasala, tre volte l’oro al petto, la patria di Nurmi, scolpito a
Helsinki come un eroe, custodisce una favola antica, una leggenda senza retorica, una leggenda
solitaria chiamata Finlandia.

Keino vince l’argento salutando i Kenyoti urlanti in tribuna. C’è soddisfazione e malinconia nelle
sue labbra. Il giorno dell’ oro a Mexico ‘68 nacque la prima delle sue tre figlie: al ritorno la
battezzò Olimpia. Forse, chissà, un giorno sarà ancora padre, di un’altra bambina: avrà già il nome
pronto, Monika, per tenersi uno spicciolo di Baviera in Africa. La Baviera che ha sempre salutato
Keino con la stima riservata soltanto ai Grandi dello sport.

La maratona Usa.

Sono partiti in una settantina, alle 15, per quarantadue chilometri e 195 metri, distanza fissata nel
1924, ma cucita alla Grecia all’ oplita Filippide, morto ad Atene perché a quella corsa, nel 490 a.C.,
non era arrivato allenato: riuscì ad annunciare la vittoria sui persiani soltanto per un miracolo di
amore patriottico.

La maratona rigenera il mito tra le strade di Monaco, anche se, da quando Zatopek applicò l’
interval-training, allenamento di scienziati, questi 42 chilometri si sono razionalizzati, perdendo un
pò d’angoscia, lunga passeggiata che distrugge le riserve fisiologiche mentre la febbre cresce e
l’unico rifornimento è fatto di destrosio e carboidrati.

Ha vinto uno statunitense, e l’ultima vittoria di un Filippide- Usa risaliva al 1908. Si chiama Frank
Shorter, alto quasi un metro e 80, ma rinsecchito dai chilometri ad un peso di 70 chili, tre dei quali
lasciati in sudore entrando al l’Olympiastadion. Vive in un ranch del Nuovo Messico ed ha studiato
alla Yale University. Non ha sorriso mai, nemmeno all’arrivo perché anche per ridere servono
energie, e 42 chilometri di corsa sono esperienza totale, che prosciuga.

E’ perfino curioso che abbia vinto in Germania proprio Shorter, nato il 31 ottobre del ‘47 qui a
Monaco. Ma non c’è sorpresa negli occhi dei giudici. Era tra i primi cinque favoriti, è passato in
solitudine sempre, ai 15, ai 20, ai 30 chilometri, non chiede ora una coperta sulle spalle, non cerca
lo spogliatoio, resta in pista ad aspettare gli altri statunitensi, per strette di mano serissime, capaci di
confessare soltanto orgoglio. La sua è vittoria senza sbavature, di estetico nitore. Ma la maratona,
nonostante tutte le razionalizzazioni, conduce al traguardo quelli dagli sguardi di superstiti. Nè gli
infermieri, nè le barelle, né le bombole di ossigeno bastano. Sono sempre poche per queste
ginocchia che si piegano magari a 50 metri dalla fine, come è accaduto all’argentino che era uscito
primo dallo stadio, alle 15, quando c’era ancora il sole e non scendeva la pioggia.

Alle 18:30, con le gradinate vuote, entra in pista Maurizio Charlotin, uno di Haiti, inseguito da una
telecamera e da un radiocronista, negli ultimi 400 metri. Fa sentire parole mozze, il fiato come un
rantolo, ma è importante quanto il primo, quanto Shorter, perché lui di Haiti è l’ultimo, l’ ultimo di
una corsa troppo antica per poter ridursi soltanto a tabella oraria, d’ allenamenti e tappe
cronometriche.

Ora, mentre scrivo, gli operai stanno montando le porte del football, per la finale. Stanno montando
qualcosa di tremendamente diverso. Che, così, dopo la maratona, mi pare anche più frivolo.