1966 marzo 21 Calvario per Corso

1966 marzo 21 (Supersport)

Calvario per Corso

Si voleva una cosa soltanto dalla partita di Parigi: sapere se Mario Corso « può » giocare in
Nazionale. Se può servire. La risposta non c’è stata, non si « è voluto » che ci fosse. Questo il
risultato, nel vuoto sepolcrale apertosi al Parco dei Principi. La penosa marcia del veronese alla
conquista di un posto al sole (di Fabbri), è stata resa quasi impossibile da una impostazione tattica
che sembrava diabolicamente studiata a tavolino per isolare il mancino di Moratti in un deserto di
velleità. Se Mario Corso dovesse scrivere di pungo il suo « Mein Kampf » dovrebbe cominciare da
lontano. Raccontare tutta la verità, soltanto la verità, quella che Edmondo Fabbri non potrà mai
smentire. Mai.

1) Capitolo primo: « Eravamo a Mosca e dovevamo pareggiare contro la Russia per tenerci in
Coppa d’Europa. Nonostante le solite manfrine della vigilia, io, Mario Corso, giocai. Con
l’espulsione di Pascutti e la testa rotta di Sormani, eravamo ridotti in nove, ma corsi avanti e
indietro come un cane, persi tre chili in novanta minuti. Il giorno dopo lessi i giornali italiani e su
tutti era scritto che ero stato il migliore in campo. Non lo avevo detto io! A Roma dovevamo
ricuperare e cancellare Mosca: speravo di esserci, ma Fabbri, con la solita manina sotto il braccio e
gli occhietti nascosti dietro le lenti, disse: “Mi dispiace, ma non posso: ho certe esigenze
dinamiche…” Beskov, quando seppe della mia esclusione, sorrise: “Gli italiani fanno pretattica non
mi fregano! Non ci credo che mettano fuori proprio lui”. Lo disse un russo, non io ».

2) Capitolo secondo: « Passò molto tempo da quel giorno di Mosca e tutto il tempo passò
inutilmente per me. Herrera mi diede maggior disciplina tattica, fisicamente maturai in pieno, ma
per la Nazionale non esistevo. Fabbri mi usava sempre come tappabuchi, per darmi in contentino,
per placare una polemica che si trascinava: dicevano che ero un apatico, ma era falso. L’idea mi
bastava, ma, lo confesso, per quella maglia azzurra ne feci quasi un dramma. Il mio era un gioco
ben preciso ormai, possibile che una nazionale che viveva da anni di esperimenti non potesse
tentare a fondo, seriamente, il mio? ».

3) Capitolo terzo: « La tournée estiva fu una vera farsa. La tournée prevedeva una sola partita di
classe, quella con l’Ungheria. Noi dell’Inter avevamo vinto tutto, con una stagione tiratissima: sia io
che Guarneri eravamo stanchi. Però era la Nazionale e allora mi andava tutto bene. A patto di
giocare, s’intende. Prima di partire dissi a Fabbri: “Vengo più che volentieri, ma mi prometta che
giocherò.” “Stai tranquillo, non si discute”. E infatti… non se ne discusse, perché mi prese per il
naso, mi umiliò, giocai un quarto d’ora…! Prima dell’Ungheria chiesi di ritornare a casa, visto che
non servivo a nulla e avevo bisogno di riposare. La polemica divenne odiosa, anche per i riflessi e
le ombre che calavano tra me e Rivera. Ma Fabbri aveva sempre gli occhiali: solo un giorno glieli
vidi traballare sul naso: fu quando, difronte a tutti i compagni, in tuta di allenamento, non potei più
trattenermi e gli dissi: “Piuttosto di far giocar me, lei farebbe scendere in campo Bulgarelli e Rivera
con le stampelle!”. Era la verità, ma non mi sono ancora pentito di averlo detto, ma, lui, Fabbri, non
lo dimenticò. »

4) Capitolo quarto: « Fabbri subì sulle grosse pressioni di stampa e di opinione pubblica per
farmi giocare, ma, prima di un infortunio alla gamba, poi, a Napoli, per una ridicola questione di
sole e di pioggia!!!, continuai a ingoiare. Dopo il trionfo di Napoli sulla Scozia, Fabbri si sentì a…
Londra, potente. E mi restituì lo sfogo delle stampelle con gli interessi. Dichiarò al mondo: “Corso

e Rivera non giocheranno mai mezzali in una stessa formazione!” Significava soltanto che io non
avrei mai giocato sul serio, ma soltanto in… terz’ordine! Bulgarelli, Rivera… Da anni la Nazionale
è servita soltanto a tenermi il morale sotto i tacchi. »

5) Capitolo quinto: « A Parigi, un’amichevole: Bulgarelli era strappato e c’era un posto anche
per me. Scesi in campo per spaccare il mondo: ma è sempre stato così, io ero nell’atteggiamento di
che sa che, sbagliando la partita, è finita. Del resto avevo capito prima che con quella squadra non si
poteva giocare: né gli altri, né, specialmente, io, Mario Corso. Con Domenghini lontano, con…
Pirovano alle spalle, con Rivera al largo: io solo, là in mezzo…, poi caccia via Domenghini che un
aiuto a centrocampo me l’aveva pur dato e butta avanti lo stanchissimo Meroni. Mette dentro anche
Lodetti che è bravissimo, ma non può trovare improvvisamente posizione e misura. Io ero ancora là,
in mezzo, solo e mi davo da fare, ma sentivo che stavo naufragando. Non ebbi coraggio di guardare
la panchina, perché un grosso sospetto mi rodeva dentro… Quel giorno, al Parco dei Principi, sentii
rintronare nelle orecchie una frase: “Avete visti tutti: avevo ragione io!” La voce di Fabbri: ed io,
pur non avendo giocato male, sentii anche una gran voglia di piangere ».

Non è l’ultimo capitolo, questo del « Mein Kampf » di Mario Corso. E’ soltanto una pagina vera
di una storia che continua. Quasi incredibile: una favola nelle mani del Mago, ma non in quelle di
Edmondo.