2000 giugno La sfida federalista tra nazione e padania

2000 giugno? – La sfida federalista. Tra nazione e Padania
L’invito congiunto di Ciampi e Amato è l’esatto contrario di una precettazione istituzionale, che
rappresenterebbe la sublimazione del centralismo. No, l’invito recapitato a regioni, province e comuni
capoluogo è un segnale ad alto potenziale simbolico. Sta a dire che la Festa non basta più, che si è
retoricamente rinchiusa in se stessa, che diventa sempre più «romana» e sempre meno «nazionale».
Soprattutto, manda a dire che la Repubblica ha bisogno di cambiamento, di riforme, anche di un nuovo
ceto dirigente, e che quest’ultimo non può che rovesciare le vecchie gerarchie di potere. Si riparte
dunque dalle autonomie locali, che sono il meglio della Costituzione repubblicana e la scommessa per
svecchiare in maniera radicale la macchina dello Stato. È stanca la Festa è stanca la politica, è stanca la
partecipazione, è stanco il riformismo. È forte il teatrino, è forte la tentazione di ridurre la politica a
mero fatturato, è forte il vizio di immaginare una eterna campagna elettorale anche su temi che
richiedono patti, accordi, buoni compromessi, regole a beneficio del sistema. Il capo dello Stato ha tutte
le carte in regola per sconvolgere finalmente il cerimoniale: da una Festa di cariche a una Festa di
autonomie. Il messaggio è questo, fino in fondo coerente con il primo messaggio di Ciampi che
richiamava senza mezzi termini l’istanza del federalismo, immaginato come un processo, come una
fatica, come un cammino che accompagnava senza strappi e senza fughe in avanti l’avvento dell’Euro
oltre che di una nuova idea di Europa. In questi ultimi dieci anni sono andate in crisi tutte le forme del
centralismo. Dai partiti alle imprese, dall’economia alla politica, ma la transizione si è fatta status, la
sola vera stabilità del sistema. È nata la new economy, non la new politica, pronta a cogliere l’enorme
potenziale del popolo degli amministratori locali. Invitandoli alla Festa della Repubblica, Ciampi e
Amato non fanno nulla di storico. Segnalano l’agenda, anche dura e tormentatissima, del cambiamento
che parte dal basso. Sarebbe paradossale che questo pro-memoria istituzionale, per definizione super
partes, venisse strattonato secondo lo schema degli schieramenti. Anzi, qui si dovrebbe misurare senza
trucchi la sincerità delle istanze federaliste, che non sono né di destra né di sinistra, ma di sistema.
Soprattutto le regioni stanno vivendo una fase nuova, dopo l’elezione diretta dei presidenti. Gli Statuti
sono lì a segnalare che c’è spazio per dare risorse, competenze, funzioni, poteri originari non più
delegati, ai «governatori» e a un ceto dirigente che per la prima voltasi avvia al regionalismo forte. Gli
Statuti da soli non fanno federalismo né modificano la Costituzione ma sono il terreno sul quale
costruire il Paese delle autonomie, dei sindaci, delle regioni leggere, dello Stato alleggerito. Le riforme
non si fanno a Roma ma nemmeno in Padania. Per modernizzare una Costituzione, serve il meglio di
un Paese non il peggio della politica. Il «male del Nord» ha fatto da laboratorio, da cassa di risonanza,
da cartina di tornasole. Non poteva risolvere nulla né per sé né per il Paese, ma è servito a chiarire tutte
le tensioni e a dare calendario alle aspettative. La secessione è collassata su se stessa, perché era
un’idea antistorica oltre che infondata. Ma anche i neogovernatori regionali che organizzassero la loro
personalissima secessione dall’Italia delle riforme finirebbero con un flop. Ancora una volta una
perdita di tempo e di razionalità a spese di tutti, Nord, Sud, senza distinzione. Un astensionismo senza
sbocchi.
Giugno 2000