1997 maggio 27 De Longhi: “sperimentiamo”

1997 maggio 27 – De Longhi: sperimentiamo una Catalogna al Nordest
Treviso. «Questo è il mio gioiello». Giuseppe «Bepi» De Longhi, cinquantotto anni, accarezza un
lungo tavolo veneto del Cinquecento, in marmo rosso di Verona, pesante quanto due fuoristrada. Il re
della stufa più venduta al mondo ha ristrutturato a fondo la casa che fu dei conti Rovero, nel cuore della
vecchia Treviso, dove il Sile e il Cagnan del verso di Dante «s’accompagnano» confondendo le acque.
Ex promettente calciatore, ex ufficiale degli alpini, laureato in economia e commercio a Venezia, De
Longhi attraversa con una falcata da maratoneta salotti di arazzi rinascimentali, di tappeti, di ceramiche
Deruta, vasi orientali, maioliche, quadri fiamminghi, vetri preziosi. Come ha cominciato?, gli domando
mentre faccio l’inventario di casa. Si sposta il ciuffo, abbassa gli occhi furbi: «Se ci penso – mormora
sottovoce – è roba da piangere, facevo dei “bussolotti” per cherosene a ottocento lire l’uno. Serbatoi a
prezzi stracciatissimi. Poi…». Poi, da quei primi venticinque dipendenti ai tremiladuecento di oggi, con
filiali in tutto il mondo tranne che nell’ex Zaire, ora tornato Congo, una sfilza di elettrodomestici per
due terzi da export, dai radiatori a olio su rotelle ai condizionatori, fino al miglior fornetto da dodici
litri, che il «New York Times» ha premiato come «Best buy», il miglior acquisto dell’anno. Per non gli
basta assolutamente e, anzi, la butta subito lì: «Facciamo millequattrocento miliardi di fatturato e, per
inerzia, arriveremo prima o poi a duemila. Ma potremmo andare a… ventimila miliardi se avessimo alle
spalle un Paese! E se capissero la forza creatrice del Nordest». Come lo vorrebbe questo Paese? «Un
Paese dove si smetta di privilegiare l’impresa bancaria su quella produttiva. Un suicidio». Le
basterebbe? «No, no. Un Paese con una classe operaia fantastica come la nostra, potrebbe diventare
leader mondiale!». Ma che fa, il Bertinotti? «Quel povero disgraziato di Bertinotti, con tutti addosso, è
l’unico coerente! Come si fa a toccare i diritti acquisiti delle pensioni?! Raramente concordo con i
sindacati, ma qui hanno ragione in pieno». Lei sposterebbe la mira? «Ci serve flessibilità. Flessibilità e
federalismo sono fratelli siamesi». Pu chiarire meglio? «In Calabria possono andar bene trentadue ore
settimanali, qui a Nordest ne servono cinquanta per stare dietro alla domanda: e gli operai ci starebbero.
Ma bisogna pagare lo straordinario senza tassarlo, così tutte le trentaduemila lire all’ora vanno
all’operaio. Anche per le donne serve dell’altro…». Non c’è il rischio di passare dalla iperprotezione
alla iperderegulation? «Abbiamo una concorrenza planetaria da far paura. Con la manomorta del costo
del lavoro – non di ci che mette in tasca il dipendente! – siamo a rischio, ma forte. Le racconto la storia
di Giacomo». Sentiamola. «Giacomo, un ragazzo capocatena alla De Longhi, nel 1987 lo trasferiamo
nel New Jersey: oggi è venditore, parla inglese come il dialetto, si è sposato con una colombiana, ha
una villetta tutta sua, vive bello e contento. Sa che cosa costa oggi Giacomo alla De Longhi? Come se
fosse ancora capocatena qui! Il fatto è che negli Stati Uniti uno ritira lo stipendio ogni venerdì ma non
sa se il lunedì avrà ancora il posto di lavoro». Una flessibilità un po’ hard, non le pare? «Il problema
non è che l’Italia vada in Europa, ma che l’Europa resti nel mondo! L’Europa è obsoleta, un dramma se
non reagisce in fretta all’Asia». Ma il modello asiatico prevede anche la pipì contingentata ai
dipendenti! Pare che in un suo stabilimento… «Quella non era la pipì, solo una bolla di sapone! Parola
d’onore, una grana sindacale con ventotto persone, del tutto risolta: non faccio il caporale, ho uno
splendido rapporto con i miei operai». Torniamo all’Asia, già tra noi. «Posso dirlo? I quattro popoli più
intelligenti che io conosca sono i cinesi, i giapponesi, i coreani e gli italiani. Ma loro sono spietati nella
concorrenza, molto aggressivi: noi abbiamo ancora Dio, loro soltanto la Famiglia, alla quale sacrificano
tutto. È una lotta dura, e sta arrivando l’Est, vedrà la Russia: lì vanno tutti a scuola; a noi veneti restano
le lauree honoris causa!». Lei accusa il sistema o il governo? «Il governo no. Il governo lavora bene, fa
il massimo». Il massimo? Ho sentito bene? «Sì! Ha soltanto sbagliato tattica con Maastricht: dovevamo
subito dire di no al primo gruppo. Germania e Francia ci avrebbero inseguito in ginocchio: non possono

fare senza di noi, con la svalutazione li rovineremmo. È la parità centrale, il marco a
novecentocinquanta, che è la nostra spada di Damocle: perci il Paese deve sterzare». Verso la
secessione? «Ma quale secessione! Siamo già talmente piccoli, cosa vuole dividere?! Di uno Stato
magro abbiamo necessità, e di più risorse e più poteri qui. Prenda il Veneto: Galan non ha poteri, e io
per la licenza di un impianto devo aspettare tre anni. Almeno il Friuli-Venezia Giulia e il TrentinoAlto
Adige sono più veloci ma, dipendesse da noi veneti, io sperimenterei una Catalogna a Nordest». Lo
spieghi alla Bicamerale. «Lasciate pur perdere la Padania, facciamo un test a Nordest, a rischio
limitato. Sperimentiamolo qui ’sto “federalismo”». Nordest, Veneto, sarebbero pronti? «Manca un
Pujol! Il Nordest ha un solo problema: Roma. Né il Sud, né storie etniche, né l’immigrazione: anzi, le
dico che vorrei centomilioni di persone in Italia, altro che far fare la fila in questura! L’immigrazione
porta sangue fresco, movimento, vitalità: che grandi gli Stati Uniti con il nero che vince il golf! Alla De
Longhi tutti i lavoratori hanno la stessa dignità: certo, l’immigrazione ha bisogno di ordine, tutto qua».
Lei ha partecipato al referendum di Bossi? «Il voto è segreto» (risata di gusto). Ma che peso gli dà?
«Simbolico. Più o meno come il campanile di San Marco! Sono tutti messaggi a Roma. Un voto di
protesta, non ideologico né secessionista. Usiamolo, sfruttiamo anche questo se serve per cambiare
radicalmente e velocemente». Non una cosa seria, pensa tuttavia Prodi. «E sbaglia. È il pensarlo che
non è serio. Le spiego il mio teorema: primo, lo Stato ha bisogno di entrate; secondo, solo lo sviluppo
pu garantirle; terzo, la fabbrica-mondo oggi produce più di quanto il mondo non consumi: in queste
condizioni, lo sviluppo richiede il meglio, investimenti, fiducia». Lei ne ha? «Gli imprenditori che
hanno solo mete di breve o medio periodo sono morti anche se non lo sanno. Io voglio l’incubo del
futuro, la prateria degli indiani non l’orto, l’ignoto: io lavoro come se puntassi sempre all’eternità.
Devo». Lavoro ergo sum, firmato Giuseppe «Bepi» De Longhi di Treviso. Mentre usciamo di casa, mi
assicura che si sta appassionando all’islam e che, per trovare un falco pescatore, è capace di fare un
viaggio in Scozia. No, qui, tra Sile e Cagnan non sento aria di secessione: sento la curiosa miscela
veneta tra «prateria» (del mondo) e orto (di casa). Il Sile, e il resto.
27 maggio 1997