1997 dicembre 13 Attenti a usare il manganello

1997 dicembre 13 – Attenti a usare il manganello
Vicenza. Accarezzando il pastore tedesco, monsignor Pietro Nonis prova a dissuadermi: «Un giorno
Giobbe disse: “Ho fatto un voto con i miei occhi, di non pensare più nulla riguardo a una vergine”. Io,
come Giobbe, ho fatto voto di non pronunciare più una sola parola su questo fenomeno. Né in bene né
in male». Il «fenomeno» sta per Lega Nord, che meno di un mese fa ha toccato in Provincia il 41,4 per
cento dei voti – nel 1992 il 24,9 per cento –, proprio mentre Vancimuglio, periferia di Vicenza, è
l’avamposto della guerra del latte. Debbo insistere con il vescovo che guida la diocesi da quasi dieci
anni, dopo aver insegnato filosofia teoretica all’università di Padova lungo sentieri pochissimo
convenzionali, dall’ateismo moderno («Il fatto più stupefacente della storia umana») a Dostoevskij
(«Modernissimo per le contraddizioni e le profezie»). Questa era l’ex sacrestia d’Italia, ora una
santabarbara… Con un sorriso tutt’altro che assolutorio, Nonis mi ferma: «È lecito usare ancora questa
espressione in tono sprezzante? Non mi va proprio quell’allusione a una Vicenza “bigotta”».
Veramente… «È bigotta una città che, a cavallo tra Otto e Novecento, dà il più grande scrittore italiano,
Antonio Fogazzaro, fulmineamente messo all’indice con due libri, out, fuori della Chiesa? È bigotta la
città che dà Il prete bello di Parise o uno scrittore come Piovene, quintessenza dell’illuminismo più
sofisticato, certamente non filocattolico? O Silvio Ceccato, uno degli atei più granitici, ma anche uno
degli uomini più affascinanti che abbia conosciuto?». Archiviamo la sacrestia, mea culpa. «Aggiunga
che negli ultimi venticinque anni la pratica religiosa qui è scesa da quote del settantacinque-ottanta per
cento all’attuale venticinque-trentacinque per cento, cioè nella media del Nord. Come, purtroppo, il
tasso di natalità, anche nel mondo contadino». E tutto è saltato. «Quello che pareva l’esercito cattolico,
identificato nel cuore bianco della zona più bianca d’Italia, come dice il professor Diamanti, ha
dimostrato che le radici erano remote cronologicamente ma non profonde dottrinalmente. Neanche così
profonde come quelle dei comunisti di Toscana, Umbria, Emilia!». L’altra chiesa. «Comunisti che
hanno subito cambiamenti altrettanto profondi ma non hanno cambiato – se non modo di pensare –
certamente il loro modo di votare. Nel pci, l’egemonia culturale ha sempre preceduto l’appartenenza
politica». Qui invece… «Era soltanto un sentire, non un pensare, che i cambiamenti sociali prima hanno
logorato poi rovesciato». Quando la politica, dunque, non si aggrappa a una cultura. «Tempo fa, mi
diedero dell’anticomunista viscerale, sa perché? Perché avevo detto: potesse la Chiesa italiana darsi un
progetto culturale simile a quella egemonia culturale in virtù della quale un piccolo grande uomo,
Antonio Gramsci, dall’oscurità del carcere fece diventare una certa idea politica un modo di pensare.
Ma come!? L’egemonia culturale è stata la più grande conquista del marxismo italiano!». Come la
identificherebbe? «Mentre i democristiani andavano all’assalto delle banche, il pci mandava i suoi
giovani all’assalto delle università, delle cattedre di liceo, o della magistratura. Quella è cultura,
Gramsci aveva capito che non è il fucile che fa le rivoluzioni, ma il modo di pensare». Ora la
rivoluzione ce l’ha lei in casa, più terragna… «Questo è un laboratorio, ecco la definizione che mi va
bene anche se non sempre, in Veneto, sono consapevoli della novità dirompente di ci che stanno
facendo». Un voto dovuto. E fu subito Bossi… «Si sono trovati di colpo orfani. E quel posto prima
dato al sentimento, qualcuno che lo ha riempito di ri-sentimento che io intendo come Max Scheler
[filosofo tedesco, 1874-1928, n.d.r.]. L’uomo ri-sentito ha sentimenti di doppia forza, forse fin troppo
forti per essere contenuti nella forma della razionalità». Non per nulla, lo scorso 6 dicembre, lei ha
inviato una lettera di settantatré righe dattiloscritte a Ruggero Marchioron, leader dei cobas del latte
veneti. Quasi con tenerezza… «Con rispetto, sì. Non conosco il signor Marchioron ma, a differenza di
altri che gli stanno vicino, è documentato, fermissimo nella sostanza quanto ragionevole nella forma».
Lei ha condannato la violenza, tutta, del liquame e dei manganelli. «Così ho scontentato tutti… questore

e prefetto quasi non mi salutano… Questi poveri poliziotti forse non potevano non reagire così, ma
qualcuno deve aver detto loro di prendere il manganello in mano con una forza che non hanno mai
avuto di fronte ad altre interruzioni di pubblici servizi. Ha sentito come si esprime in televisione
l’attuale ministro dell’Agricoltura?». Lei sul «Giornale di Vicenza», l’ha definito supponente e iroso.
«So che sono parole brutte. Ma ai contadini, quanto più umili, quanto più a sud, vanno trattati con
rispetto e senza pensare a priori che ti abbiano imbrogliato due volte. Se è vero che ci sarà qualche
furfante di mezzo, è vero che la maggior parte di queste persone hanno veramente la paura di dover
chiudere le stalle o abbandonare la terra». Per snobismo e/o cecità, certa cultura metropolitana stenta a
capire questo mondo. «Non so come si potrà uscirne senza gravi contraddizioni e senza gravi offese. È
certo che uno dei valori che vedo nell’attuale protesta contadina non è soltanto di carattere economico-
contabile ma viene, questo sì, da radici profonde». Qui, da Vicenza, dalla bocca del vulcano nordestino,
lei crede nel federalismo? «Sì. Anche se ho capito che il federalismo è un percorso molto difficile.
Come il nostro amico e mio coetaneo Martini sostiene, la parola federalismo da sola non basta: bisogna
che sia solidale, che colui che è federato non si dimentichi mai, mai, di guardarsi intorno. Per il
cristiano, l’essenza è questa: ciascun uomo è simile a te». In Bicamerale nessun federalismo, né
solidale né altro, nemmeno quello di D’Onofrio. «Ma non lui, altri gliel’hanno fatto abbandonare, e mi
domando chi. C’è gente che bara, che dice di volere ci che non vuole. A questo punto non so più con
quanta sincerità, tanti che si erano fatti carico delle ragioni del federalismo, lo hanno vergognosamente
smarrito. E a sua volta Bossi, che ha il merito storico di aver posto la questione, non ne parla più. Ma,
la prego, non faccia parlare me…». Monsignore, se posso, badi che questa non è politica, è
partecipazione civile, non crede? «Le confesso che mi ha fatto molto dispiacere sentire di recente, che
da parte di una persona che fa parte della politica vincente, affermare: “Rispetto la religione, ma non
amo i preti che fanno politica”. Ora, occuparsi di lavoro, di chi non ha lavoro, di chi è solo o di chi non
riesce a essere solo, questo non è fare politica, questo è fare umanità, occuparsi della gente. Sarebbe
politica se mi occupassi di te per potermi servire di te domani, ma oggi la Chiesa ha imparato a
occuparsi specialmente di coloro di cui non si potrà mai servire». Immagino che Bossi non la segua. «Il
suo atteggiamento di questi ultimi mesi contro il papa e contro i vescovi non ha precedenti nella storia
politica italiana. Mai accaduto! Sì, i “preti” in generale erano la bestia nera dei liberali mentre i
socialisti dell’inizio del secolo scrivevano “dio” minuscolo, ma non si era mai vista una cosa così.
Credo che Bossi abbia capito un altro paradosso italiano». Paradosso? «Che la Chiesa, che è stata la più
grande e diffusa forza di resistenza all’unificazione nazionale dell’Italia, è diventata agli occhi di Bossi
la forza invece di maggior resistenza alle velleità di tipo secessionistico, nel nome di una non facile
solidarietà».
13 dicembre 1997