1970 luglio 28 Al lavoro come muratori per essere “fratelli veri”

1970 luglio 28 (Il Gazzettino)

I « costruttori » universitari di Padova
Al lavoro come muratori per essere « fratelli veri »

Ora sono impegnati a Badia Polesine, a costruire una casa di riposo per poveri e anziani –
« Cristiani e no », purché fedeli all’amicizia per il prossimo

DAL NOSTRO INVIATO
Badia Polesine, 27 luglio
Sui muri del Bo’, un manifestino giallo: « Siamo il Gruppo Universitari Costruttori di Padova e
chiediamo la vostra collaborazione per un’opera a favore dei nostri fratelli. Abbiamo già costruito
negli anni scorsi delle case per famiglie bisognose. Quest’anno termineremo la costruzione della
Casa di Riposo per persone povere e anziane a Badia Polesine iniziata l’anno scorso. Lavoreremo
dal primo luglio al venti settembre. Chiediamo, senza preclusione alcuna, questa unica cosa: una
settimana di lavoro e di vita comunitaria ».

Una settimana (minimo) o un mese (massimo) tolti alle vacanze. Anzi, un modo dì interpretare la
vacanza. Nietzsche diceva che « nella lode c’è più importunità che nel biasimo ». Questi studenti o
laureati o professori ne sembrano convinti fino al midollo. Appena ho posteggiato la macchina
davanti alla loro « vacanza », una costruzione di 7000 metri cubi e quattro piani, mi hanno infatti
chiesto: « Scrivi ciò che vuoi, ma non presentarci come dei martiri o degli eroi degli anni ’70 ».

I « Costruttori » esistono da quattro anni, quando realizzarono una abitazione per due famiglie
numerose a Solesino, nella bassa padovana. Tre anni fa, si spostarono a Trento per una casa
consegnata ad una famiglia povera. Due anni fa, l’impegno assunse dimensioni più vaste, in metri
cubi e impiego umano: una moderna Casa di riposo a Tai di Cadore. Nel giro dei soliti due mesi e
mezzo, vi lavorarono 800 studenti, a turni di 50-60. Studenti di tutta Italia, qualche straniero,
ragazzi e ragazze. L’anno scorso, cominciò la costruzione a Badia Polesine, per « vecchi poveri ».
In pratica, la grande ala di uno stabile di proprietà dell’Opera Pia. Mentre un gruppo sta rifinendo
l’edificio di Tai, il grosso della troupe è qui, per completare almeno al 90 per 100 l’edificio. A
settembre, avranno lavorato 1200 studenti.

Non esiste gerarchia all’interno del Gruppo: nessuna, differenza di sesso o di qualifica. Ma un
personaggio di riferimento c’è. Alto, bruno, 46 anni, dal dialogare pacato, il tratto sereno del volto e
delle mani. Padre Mario Ciman, gesuita. E’ ricercatore-capo del Cnr (enzimologia) all’Istituto di
chimica biologica dell’Università di Padova. Vicentino, raggiunge la « comunità » di Badia alla
sera: quando l’esperienza del gruppo passa dal momento del lavoro manuale in cantiere a quella
della ricerca sociale.

— Padre Ciman, come è nata questa iniziativa?
« All’Antonianum, affrontavo con un gruppo di giovani i problemi dei poveri. Eravamo nello
spirito della San Vincenzo, ma non ci bastava. Bisognava fare qualcosa di concreto; il giovane
doveva « pagare » di persona. Costruire dunque una casa, con il materiale messo a disposizione da
mio padre, imprenditore edile. Cominciò quasi come uno scherzo… ».

Profilo duro

— Ci sono altri campi di lavoro, altri gruppi, ma il vostro si differenzia, con un profilo duro,

esigente. Può chiarirne le intenzioni?

« Tutti, io compreso, paghiamo mille lire al giorno per lavorare in questo campo. Non è, tranne
qualche eccezione, una presenza gratuita: ciò per impegnare, per accentuare la rigorosità del
movente. I ragazzi lavorano otto ore al giorno: debbono sentire l’autentico peso del lavoro, come
operai veri. La esperienza non si riduce però al costruire materialmente la casa. Vogliamo
sperimentare l’amicizia, « stare insieme ». E non intendiamo starci con la chitarra, cantando. Da noi
non sono ammessi divertimenti come in altri campi: ballo, cinema. Stare insieme alla sera,
studiando, discutendo i problemi del nostro tempo. A queste riunioni partecipa anche gente del
paese e invitiamo, per discussioni, professori, deputati. L’altra sera è stato con noi il professor Zatti,
docente di fisiologia umana: ha trattato le componenti fisiologiche nella violenza dei giovani. Tutto
ciò serve anche a superare il solito antagonismo tra studente e professore: per lo studente, oggi, il
professore è un arteriosclerotico; per il professore, lo studente è un lazzarone, con molti capelli e
nessuna voglia di studiare ».

— Il vostro è un gruppo confessionale?
« E’ cristiano ma vi possono partecipare anche non cristiani. Nella direzione del campo, ci sono
ora degli atei. Le tendenze politiche sono tutte rappresentate. Il dibattito è apertissimo, ma non
tolleriamo l’insulto, come strumento di dialogo. Cerchiamo un nostro stile, che non è quello della
contestazione: non un’antitesi, ma un’alternativa a quella. Anche sottolineando l’aspetto di lavoro, di
sacrificio abbiamo realizzato un’alternativa: basta cartelli, basta distruggere, ci siamo detti,
cominciamo a costruire, con le nostre mani. Sappiamo che si tratta di un’esperienza settoriale e
siamo propensi noi stessi allo scetticismo più che alla esaltazione ».

Stile di vita

Sono volontari. Praticano autogoverno. Non hanno organizzazione per il reclutamento, ma chi
lavora è assicurato, dal primo all’ultimo giorno: e, finora, non ci sono stati infortuni. In genere, la
proporzione dice: due terzi ragazzi; le ragazze si dedicano alla cucina, ma pure ai lavori pesanti.
Non hanno una tessera in tasca: vogliono riconoscersi, nonostante la prevalente estrazione
borghese, in uno stile di vita che sia « l’antitesi dello sfruttamento » offerto dalla società. Quei
quattro piani, mattone su mattone, con ascensore, una enorme terrazza e camere ampie, sono lì:
forse la gente non ci credeva, ma alla fine ha « visto ». Saranno una novantina i posti-letto: e li
avranno costruiti questi studenti, con l’assistenza di due operai specializzati.

Arrivo a Badia Polesine a mezzogiorno. Mi invitano a tavola, tra mura ancora grezze. Nessuna

formalità. Il « tu » come un distintivo. Atmosfera di kibutz senza fucili.

— Non ci sarà un’ombra snob sulla vostra esperienza?
Umberto Da Pos, laureato, torinese, capo del campo: « Non lo escludo a priori, ma si tratterebbe
di una strettissima minoranza. Per snobismo verremmo qui a lavorare, pagando? Ci sarebbero altre
soluzioni, ti pare? ».

— Perchè sei qua, a Badia?
Giancarlo Sciarelli, 23 anni, di Firenze: « Per imparare qualcosa; per conoscere me stesso e gli

altri. Per costruire la casa dei vecchi poveri e vivere in comunità».

Letizia Tundo, anni 20, Lecce, del Servizio sociale: « Sono qui per capire: servirà molto al mio

lavoro futuro ».

— Gli abitanti di Badia che pensano di voi?

Rossella Riperti, di Ancona, anni 17: « Tranne eccezioni particolari, né a favore né contro: direi
indifferenti. La nostra è in fondo una reazione alla società: non m’importa l’opinione della gente ».

— Ma qual è il nocciolo della vostra giornata?
Franco (non dà il cognome): « La stanchezza della sera, un cameratismo non epidermico come
quello che nasce, che so?, dal divertimento. Qui nasce, nel lavoro per qualcuno, una comunicativa a
livello profondo. L’anno scorso, chi partiva, ricordava soprattutto questo ».

Agostino, veneto (non dà il cognome): « C’è gente che parte con le lacrime agli occhi. Vuole

ritornarci, perchè sente il valore di una fatica volontaria e comunitaria ».

— Che ne pensano a casa vostra?
Costanza Masotti, di Mestre: « Ti pigliano un po’ in giro. Succede a tutti noi. Ma dove vai?

Perchè non te ne stai tranquilla? ».

Paola: « Sì, c’è molto scetticismo nei genitori. Ma noi pensiamo di produrre un po’ di lievito per

la vita ».

— Perchè costruite proprio qui a Badia?
Alessio Randon, anni 22, di Brogliano (Vicenza): « Il luogo non ha importanza per un’occasione
formativa come questa. La scelta di Badia è legata però ad una ragione pratica: una zona che ha dei
problemi e un posto dove esisteva già qualcosa. Questa è l’ala di un edificio: quando avremo finito
tutto, ci sarà già l’organizzazione pronta per far funzionare una cosa che non è nostra, perchè noi
non abbiamo proprietà di nulla ».

Alle 14 esatte, mi chiedono se ho finito. Comincia l’orario di lavoro. Sono una cinquantina.
Spariscono rapidamente nei 7000 metri cubi di manufatto. Passo da una stanza all’altra. Fanno tutto,
ragazzi e ragazze, con un « mestiere » che nasce dal di dentro, non da una scuola professionale.
Dice padre Ciman: « La società considera fesso chi lavora per gli altri; furbo chi bada ai fatti
propri ». Scetticismo. Perchè sono ragazzi e ragazze. Perchè sono scomodi. Perchè accendono la
coscienza. Perchè soprattutto lavorano d’estate, pagando per lavorare, lavorando per i « vecchi
poveri ». Sotto l’ombrellone, è difficile per noi tutti interrogare la coscienza.