2002 ottobre 3 Domenico Sartor

2002 Ottobre 3 – Domenico Sartor

Ego non sum dignus. Dopo tante ispirate relazioni, sono un po’ intimidito e mi chiedo:io povero
laico di formazione liberale che cosa ci sto a fare qui? Naturalmente lo dico un po’ con humour e un
po’ con serietà, perché sono molto contento di dare la mia testimonianza sul legame tra un politico
democristiano molto sui generis, come Domenico Sartor, e un prete molto speciale, come don Paolo
Chiavacci.
Parto però dalle cose importanti che qui ho sentito e che, da giornalista, consiglio di utilizzare fino
in fondo, come lievito a futura memoria. In un precedente incontro padre Du Plessis ha, con
maestria, posto sul capitalismo una questione che meriterebbe da sola un clamoroso
approfondimento partendo dal collasso del comunismo nel 1989.
Sintetizzando molto,è stato detto in sostanza che il comunismo reale funzionava da freno rispetto al
capitalismo; che la sua sola presenza sulla scena della storia rappresentava in fondo un freno alle
tante forzature del capitalismo altrettanto reale. A cominciare, tanto per intenderci,dal “liberismo”
che è la versione a mio parere meno liberale del capitalismo, tanto che un maestro liberale per
eccellenza come Luigi Einaudi la detestava cordialmente, non usava mai quel termine e adottava
soltanto il classico “liberalismo”,unico in grado di esprimere libertà, diritti,etica del capitalismo
prima del mero “ismo” di mercato.
L’idea che ci si trovi oggi di fronte a un collasso valoriale anche perché il capitalismo – rimasto
padrone dei sistemi economici come degli stili di vita – finisce per rovinare il mondo così come lo
abbiamo ricevuto in consegna, un’idea come questa dicevo non è che la si possa accogliere a cuor
leggero.E’ un tema dirompente, da approfondire anche per la sua sottile attualità.
Non so immaginare che cosa avrebbe potuto aggiungere a questo proposito Domenico Sartor. Da
quanto ho capito io di lui, lui era il contrario dell’ideologia e oggi si parte appunto dal suo
naufragio. Era un uomo che privilegiava la realtà, la storia, il vissuto, e guardava alla storia nel suo
processo di cambiamento:lo interessava l’evoluzione delle cose, non lo status quo; pensiero e
azione,intendo, non la corazza ideologica che spinge a imprigionare idee, uomini e fatti. Semmai,
faceva fatica a inchiodare il progetto al vincolo del conto economico tanto che un industriale
padovano,Mario Carraro, mi diceva di lui con simpatia che era “il La Pira di Castelfranco”.
Mi risulta perciò difficile provare a indovinare post-mortem come avrebbe potuto inquadrare adesso
un tema così affascinante come quello del rapporto capitalismo/comunismo alla luce del
1989.Certo, il bagaglio culturale di Sartor farebbe sospettare qualche pista, qualche indizio, ma
questo resta un capitolo aperto. Da parte mia, mi limito ad aggiungere una postilla:il capitalismo
liberale cammina tendenzialmente con la storia del cristianesimo, soprattutto protestante, e non
cammina dove non c’è cultura cristiana e umanistica o ,mi correggo, il capitalismo riesce a
sviluppare la sua filosofia, la sua etica dei “schèi”, la sua democrazia, l’individualismo dell’homo
economicus e le sue stesse contraddizioni sociali, meglio nelle società centrate sulla libertà cristiana
che altrove.
Anche qui ci sarebbe molto da chiarire e da approfondire, e Sartor ne avrebbe potuto dire di cose
utili a noi,lui così cristianamente “francese” dentro. Dunque, intellettualmente allenato allo spirito
critico, per cultura in mare aperto.
E oggi, a mio avviso, servirebbe come il pane una grande conciliazione comunitaria tra il “fai da te”
e il “fai per te”.
Ma rinuncio subito a insistere, dato l’invito ad essere sintetici.
So però che mi perdonerete a questo punto un riferimento molto personale.E’ il sindaco Domenico
Sartor che nella primavera del 1956 si rivolge alla prefettura di Treviso, e in particolare a uno
stimatissimo vice-prefetto, il dalmata Gioacchino Boglich, italiano di cultura tedesca avendo
studiato a Graz, perché venga “comandato” a Castelfranco un bravo segretario comunale. Boglich
diede un’occhiata in provincia e ritenne che il bravo segretario comunale si trovasse allora in
municipio a Motta di Livenza: era per fortuna e con merito mio padre, che fu velocemente
trasferito a Castelfranco, con al seguito le salmerie famigliari di ogni funzionario pubblico. E’

così,caro ex sindaco Brunello, che la mamma e noi quattro figli abbiamo scoperto con grande
amore Castelfranco, comune che doveva predisporre da allora il processo di industrializzazione
e,anche,la trasformazione non soltanto araldica in “città”.
Per questo il ricordo civile di Sartor s’incastra in me con il ricordo più privato,quotidiano e grato.
Come del resto l’aver sposato Emina Chiavacci mi ha dato infinite occasioni di privilegiata
conoscenza di don Paolo.Il notaio Francesco Chiavacci, fratello maggiore di don Paolo e mio
indimenticabile suocero, mi ha sempre dato la sensazione che considerasse quel prete la
prosecuzione della fede con altri mezzi, se così posso dire.
Ma vengo alla mia testimonianza sul rapporto tra Domenico Sartor e don Paolo Chiavacci.
Don Paolo Chiavacci è un prete ma non nasce prete per precoce vocazione.Nasce in una famiglia
alto borghese di Crespano del Grappa, il cui capofamiglia è il classico notabile,uomo di riferimento
del luogo, notaio di vecchio stampo,podestà e sindaco per figura carismatica e trasversale, si
direbbe oggi, che supera proprio per carisma personale anche gli stretti passaggi del tumulto storico.
Ha una moglie di origine palermitana con la quale mette su una famiglia numerosa, tre femmine e
quattro maschi. L’ultimo dei quattro maschi è Paolo,e Paolo, del 1916, ragazzo volitivo,ricchissimo
dentro, un piccolo vulcano spirituale pronto a entrare in attività, va in guerra, come ufficiale degli
alpini,in Grecia, in Albania,poi prigioniero in Francia.
In Albania, nei primi mesi del 1941, a 25 anni, capita al futuro don Paolo un episodio che segna e
segnerà la sua vita, un episodio che nei suoi ricordi lui paragonava a un “quadro”, un quadro del
vivere, del soffrire e del morire.Sul campo di battaglia, in un cimitero di morti e di feriti,c’è un
soldato greco, che gli muore praticamente tra le braccia. Le braccia di un uomo, di un uomo
tormentato, che conosce vita e passioni; un uomo che s’interroga, non un prete in via di
ordinazione. Vicino a una roccia, il soldato greco è stato colpito in piena faccia da una granata e
spira tra le braccia di don Paolo, dopo aver abbandonato a un passo un libricino ancora aperto dall’
ultimo gesto della mano.Il libricino scritto in greco portava un titolo che poteva essere tradotto in
latino “De vanitate” oppure in italiano “Sulla vanità”.
Il centro della riflessione umana e spirituale di Paolo Chiavacci parte da questa folgorazione sul
fronte albanese, la sua via di Damasco del sacerdozio, il drammatico abbinamento tra vita,morte e
vanità delle cose. Tutto ciò lungo il sottilissimo confine tra vita e morte segnato da una granata
lanciata come tante, da mano ignota verso un soldato ignoto per un destino ignoto a entrambi.
L’ufficiale Chiavacci ritorna a casa dopo l’8 settembre del 1943 portandosi dentro quella ferita
dell’anima, entra nel seminario di Treviso e, tre anni dopo, si fa prete.Nel 1946 è don Paolo.
Giustamente, don Silvio Favrin, buon e profondo amico di entrambi, considera “provvidenziale”
l’incontro tra don Paolo e “Ménego” Sartor: gli oscuri sentieri della provvidenza fanno incontrare
due persone apparentemente distanti che poi si ritrovano così vicine. Ma forse,aggiungo da parte
mia, la provvidenza era nel loro caso meno oscura di quanto potesse apparire a prima vista.
Sartor era uomo di sfide,anche discusse ma sempre sfide; uomo di idee ventose,mai in bonaccia.
Uomo e/o politico tagliato sulle cose, uomo di idee da mettere in pratica, e proprio per questa
ragione lascia probabilmente scarsa traccia scritta di sé, smentendo il comunissimo detto “verba
volant scripta manent”.
Per Sartor sembra quasi che volassero tanto le parole quanto gli scritti e che invece, secondo la sua
filosofia, solo le realizzazioni sul campo meritassero di non volar via come parole dette o scritte fa
lo stesso. Chissà, lui nato negli Stati Uniti, si portava dentro non si sa come un qualche misterioso
cromosoma di pragmatismo americano!L’”onorevole” per antonomasia era uomo di contatto; di
contatto con il popolo, come si diceva allora prima che il popolo diventasse “gente”, “opinione
pubblica”, “cittadini” e soprattutto…”elettori”.
Anche don Paolo era uomo e/o prete di sfide e di umanità. Era un uomo cui era mancato soltanto
l’incidente per diventare prete: la guerra era stato l’incidente, che gli aveva fatto capire che lui
doveva servire e basta.
Quei due, il prete e il politico,erano fatti per servire,ciascuno a modo suo ma sempre servire, fare
cose, possibilmente partendo dagli “ultimi” come li chiamerebbe ancora oggi David Maria Turoldo.

E poi, da alpino, don Paolo sentiva che la sua adorata montagna annuncia sempre sfide: in
montagna è vietato bleffare, raccontare storielle, fare propaganda; la montagna esercita ad andare
all’osso delle cose. Il servire appunto, verbo tanto laico quanto religioso, farsi servo di una causa
generosa.
Non a caso la prima parrocchia di don Paolo, come ricorderà l’ingegner Aldo Tognana, è a Dosson
di Treviso. Appena finita la guerra, Dosson non è un comune qualunque, di ordinaria
amministrazione pastorale.E’ un luogo martoriato,lacerato,anche “rosso” ma dove vivono gomito a
gomito persone che portano addosso ogni genere di divisione e di difficoltà.Il suo primo lavoro da
prete è tra i sinistrati delle case popolari, alle caserme e dintorni, popolo senza casa per i
bombardamenti, poveri, “bisognosi” secondo la terminologia di anni in cui era ancora ignoto il
“Nordest” del benessere diffuso. Gente spesso disperata, di una parrocchia difficile,dove si
accendono continui scontri e rivalità anche politiche tra quanti abitano queste pseudo case popolari
sistemate nelle caserme. Ci sono comunisti arrabbiati,fascisti rancorosi, profughi istriani in fuga
deprivati di tutto. Su quel mondo di Dosson ricordo un suo bellissimo inciso che annotava…”c’è
anche qualche timido democristiano”…, timida testimonianza di una forza politica nuova ma là
marginale, presa in mezzo com’era da passioni estreme trascinate a forza dal passato o dalla voglia
di ribellarsi alla infinita durezza del presente.
Dosson è il campo dell’allenamento del prete don Paolo.Lì don Paolo Chiavacci esercita per la
prima volta la sua attività di uomo di chiesa e di “incontro”.L’incontro fu la sua specialità, sempre,
da Dosson fino alla morte, l’incontro con il dolore prima, l’incontro con gli uomini ultimi che per
lui saranno i primi,l’incontro con le persone agli esercizi spirituali,l’incontro con la Natura a Casa
don Bosco,l’incontro con il Grappa e con i suoi insostituibili alpini,l’incontro con gli inquieti
viandanti della modernità e con ogni persona a caccia di ascolto. L’incontro con Sartor.
A guardar bene, con il senno di poi, don Paolo non poteva che incontrare Sartor e viceversa.
Secondo me,la politica non c’entrava nulla, zero. Lassù, dal terrazzo di Casa don Bosco a Crespano
del Grappa, seduta a conversare con lo sguardo che atterrava lontano laggiù nella pianura, la strana
coppia di “don” e di “onorevole” pensava ad altro e pensava, ci scommetto, in grande.
Partendo dalla politica delle cose, come avrebbe detto il socialista Pietro Nenni, sotto sotto
volevano migliorare il mondo. Entrambi riformisti, cambiare per crescere.
In assenza di nebbie e foschie, da lassù la visuale era anche simbolicamente lunga. E tanto lunga
che nelle chiare giornate d’ottobre don Paolo raccomandava agli ospiti degli esercizi spirituali o ai
suoi ragazzi, sorta di boy scout del Grappa,di allungare con pazienza l’occhio fino all’apparizione,
sull’orizzonte basso, del campanile di san Marco a Venezia.
Mi ricordo benissimo Domenico Sartor in cappotto, seduto al sole con le sue occhiate e i suoi
pensieri. Era gente che conosceva l’arte di riflettere, frutto anche di scuola. Prima di ammalarsi di
partitocrazia, il ceto politico dell’Italia della ricostruzione aveva avuto scuola, quella che oggi
manca. Al di là dello stesso giudizio storico su ciò che ha fatto o non fatto,in Sartor si coglie lo
studio, un uomo che ha studiato come un pazzo, che ha cercato riferimenti dappertutto, che ha
girato e cercato esempi, che ha studiato i francesi e i tedeschi, che ha avuto maestri, che aveva
voglia di sapere prima di agire.
La politica come scuola e come formazione è la grande modernissima lezione che viene fuori da
questa rivisitazione storica della figura di Domenico Sartor.
Si capivano, io credo;questo è il legame tra Sartor e il prete Chiavacci. Darsi da fare, investire valori
e lire, socializzare la responsabilità personale,far girare bene le cose senza badare alle apparenze.
Perfino nella cosmica disattenzione per il vestire e per il comfort quotidiano era evidente che
pensavano a tutt’altro.
Dicevo dei sinistrati di Dosson,ricchi di preoccupazioni e di marginalità quanto poveri di risorse e
di futuro.Da parte sua,il popolarismo di Sartor prevedeva più popolo che partito. Anzi, ho sempre
avuto l’impressione che – come sosteneva mio papà – l’onorevole facesse partito a sé.
Basta rivedere oggi,qui, queste bellissime fotografie di un mondo soprattutto in bianco e nero,nelle
quali l’inconfondibile cappellino di Sartor spunta tra i contadini. Ignora ogni salotto, “Ménego”, lui

incontra i contadini come don Paolo incontra i suoi ultimi della parrocchia . Sartor prova a fare
integralmente umanesimo a contatto ravvicinato,nel momento storico in cui la terra era al massimo
ingrata e compito della politica consisteva per lui nell’ accompagnare la neo-democrazia alla realtà
delle persone,non a vuote parole d’ordine.
Il popolo della terra è la sua prima politica, dura, durissima, perché allora i contadini veneti erano
davvero gli ultimi, prima di diventare via via operai, lavoratori autonomi, artigiani, commercianti,
piccolissimi imprenditori allo stato nascente. Come l’altra sera ha documentato il professor
Francesco Favotto, eravamo davvero ridotti male noi veneti polentoni di cronica emigrazione, con
indici economici e sociali incredibili se confrontati all’oggi. Indici addirittura “meridionali”, intesi
come parametro di arretratezza e di sottosviluppo.
In ogni caso, al centro stava l’uomo. L’uomo di Sartor cominciava appunto dal contadino,dalla
terra,dall’agricoltura, nel nome del riscatto,della dignità,della formazione; cominciava dal contadino
ma si allargava alla prima vera emergente società interclassista. L’uomo di don Paolo era il tutto-
uomo dell’espressione di padre Du Plessis.
Mi sono anche tenuto in mente che don Silvio Favrin mi aveva detto una frase molto bella:”La
Trinità di don Paolo era Dio,uomo e natura.” E’ verissimo.
L’istinto costruttivo è un’altra sintonia parallela tra don Paolo e l’onorevole.Sporcarsi le
mani,suscitare energie,lavorare. Don Paolo lo fa con volontari,alpini,professionisti,ambientalisti,
giovani e professori. Quasi metaforicamente, muore sotto un corniolo, con a fianco pala badile e
piccone, mentre sta lavorando come un contadino, con la sua veste sporca di terra , con le sue
scarpe buone per vangare come per recarsi in curia. In un certo senso, una morte pedagogica.
Qui ho ascoltato una citazione per sottolineare l’arte di saper occupare nella vita il proprio posto
esatto e preciso. Sartor occupava il suo posto preciso,esatto,era un uomo di potere senza essere un
politicante. Don Paolo occupava il suo posto preciso,esatto,era un prete senza essere un clericale.
Il loro dialogo “provvidenziale” si sviluppa attorno al possibile domani, attorno alle faticose
possibilità di incidere sulla comunità civile, partendo dal piccolo per espandersi verso il grande.
Anche questa è una comune grande lezione pedagogica.
E’ per questo che io ho amato don Paolo Chiavacci. E’ per questo che nutro un immenso rispetto
per Domenico Sartor.
Sono felice che mi abbiate dato questi dieci minuti per darne testimonianza. Grazie.