1994 agosto 21 Ci chiami, e vedrà

1994 agosto 21 – Ci chiami, e vedrà…

Se Umberto Bossi- o altri beninteso- prevede di denunciare “scandali economici” ma teme di non
trovare alcuna eco nella stampa, noi siamo qui a offrirgli la prima pagina, il titolo a otto colonne,
persino la locandina in edicola. Ci chiami e vedrà.
Lo abbiamo sempre fatto a 360 gradi, senza distinguere tra Palazzo politico e Palazzo economico.
Ieri a Cortina, Indro Montanelli ricordava che il mitico direttore del “Corriere della Sera”, Luigi
Albertini, intimava ai suoi giornalisti di non mettere mai piede nei palazzi della politica. Fedele a quel
precetto nonostante la sconfinata carriera, Montanelli è entrato in vita sua una sola volta alla Camera
e una volta al Senato.
Verso il Palazzo economico è consigliabile da parte dell’informazione altrettanta prudenza: un passo
indietro, piuttosto che un passettino dentro fino ad avere le mani in pasta. Semplice il perché. Il
volume degli interessi, la promiscuità con il denaro, la destrezza finanziaria, il dosaggio delle mezze
notizie, degli scoop e delle veline per provocare sul mercato effetti che, invisibili alla massa dei
cittadini, soltanto pochi occhi esperti sanno leggere in controluce.
Non sappiamo a quali scandali alluda Bossi, e se esista ancora qualcosa che ci possa scandalizzare
dopo oltre due anni di Tangentopoli. Ma una cosa è pacifica: non esiste la transizione politica assieme
alla stabilità economica. Quando un sistema smotta, lo fa portandosi tutto dietro.
Particolarmente in Italia dove il consociativismo, colpevole di aver imbastardito tanto le maggioranze
quanto le opposizioni, ha funzionato sia in politica che in economia. Un’economia “da socialismo di
Stato”, secondo l’esecrazione del liberale Luigi Einaudi, sempre pronta a favorire monopoli,
oligopoli, industrie protette, un provvidenzialismo che riduceva al minimo tanto il rischio d’impresa
quanto la libera concorrenza. In altri termini, la negazione del liberismo, ma quello vero, non quello
che oggi abbonda sulle labbra più impensate.
Da Tangentopoli fino alle ultime inchieste sull’evasione fiscale, il capitalismo all’italiana mostra di
essere vittima e insieme complice. Vittima di uno Stato concussore per inefficienza prima che per
corruzione; complice di una cultura che punta sul profitto a respiro corto piuttosto che sul profitto a
gioco lungo delle regole e del senso dello Stato.
Rispondendo alla domanda del direttore del settimanale “Epoca”, il presidente della Camera ha
dichiarato: “Con Berlusconi si può invertire la lettura del teorema di Tangentopoli: trattare lo Stato
come cosa propria può diventare un bene. Berlusconi si occupa con la medesima passione personale
della cosa pubblica così come ha trattato il suo impegno imprenditoriale. Che cos’è questo se non
senso dello Stato?”.
Per quanto Irene Pivetti sia sicuramente animata dalle migliori intenzioni, il senso dello Stato è
un’altra cosa. Lo Stato dei tangentisti è una rendita, una cosa presa in usucapione dai partiti,
un’occasione da far fruttare come un lotto o un appalto. Lo Stato gestito da chicchessia come “cosa
propria” rischia invece una insana macedonia tra politica e azienda, tra interessi e diritti, tra burocrazia
e populismo, tra ceto di governo e privatissimo staff.
Il senso dello Stato abita altrove o, peggio, non abita ancora tra noi. Non abitandovi, gli uomini di
Stato si contano a malapena su due dita: Giolitti e De Gasperi, enumera Leo Valiani; De Gasperi
l’unico del dopoguerra, conviene con lui Montanelli.
La Stato ha senso per la gratuità. Non è una “roba”, tua o mia, di una casta o di un manager. Se
liberale, tollerante e laico, lo Stato è una creatura fragile, che mostra il lavoro delle generazioni come
gli strati di rocce svelano la loro età geologica. Il senso dello Stato è oggi più che mai il tentativo di
un’Italia delle idee come base per l’Italia delle cose.