1982 agosto 2 Bergomi un campione dal cuore… giallo-sole

1982 agosto 2 – Bergomi: un campione dal cuore… giallo-sole

Qualche giorno fa a Jesolo sono andato a trovare un campione del mondo, uno dei 15
che hanno giocato e vinto in Spagna. Uno di quelli che la gente soffoca d’autografi,
che gli sponsor inseguono con i contratti in mano, che il Mundial ha arricchito con
almeno cento milioni sull’unghia. Gente Famosa, onorata da Pertini, da Spadolini e
dal record popolare di 36 milioni di telespettatori.
Mi aspettavo di trovarlo in un hotel con piscina e american card, sullo sfondo di una
siepe di bikini, con lo sguardo di chi fa ogni giorno al mondo il regalo di esistere.
Andavo a cercare il mio campione del mondo convinto d’imbattermi nel prototipo di
divo al mare post-épos. Il Miles Gloriosus, il Divo Azzurro, il principe azzurro del
calcio del dopoguerra, l’unica generazione di giocatori italiani capace di farsi
chiamare mondiale.
A darmi strada era Aldo Beraldo, ciclista veneto che vent’anni fa arrivò secondo a
Saint Vincent in una tappa del Giro d’Italia e che da dilettante vinse un circuito
internazionale di Col San martino. Di fronte alla colonia Stella Maris Pio X, ho visto
Beraldo sterzare verso la campagna e fermarsi all’ultima palazzina due piani. «Sta
qui», mi disse, e non vedevo né un bikini né un lembo di piscina né un pezzullo di
marmo, né un qualunque indizio che si trovasse proprio lì il mio campione del mondo,
Bronzo di Riace dello sport-spettacolo, del calcio-dei-nababbi. L’ultima palazzina era
rivolta a campi di grano, di meloni e di fagioli, con due nastrini tricolori appena
percettibili agli angoli del poggiolo.
Giuseppe Bergomi campione del mondo, non ancora diciannovenne, il più giovane
dei campioni del mondo, assieme a un irlandese il più giovane giocatore dell’intero
Mundial ’82, stava dormendo come un ghiro sulla branda di una camera a tre piazze,
la stessa frugale vacanza degli anni precedenti, l’appartamentino preso in affitto dalle
cugine di Melzo, l’atmosfera della solida brava gente di provincia lombarda.
«É un ragazzo d’oro» racconta con tenero sorriso la cugina Enrica, e non si riferisce
al venalissimo oro della coppa mondiale; l’oro di un giallo-sole è soltanto quello del
cuore.
Ricordo Bergomi a Vigo, schivo, mai una parola, quando vedeva i giornalisti
abbassava palpebre e baffi svicolando via con l’inseparabile Franco Baresi. Fu l’unico
a non accorgersi del silenzio-stampa decretato dalla Nazionale per la semplice ragione
che il dovere di restarsene muto lo sentiva nel sangue fin dal primo giorno della
convocazione: per umiltà, non per protesta.
Dei campioni del mondo Giuseppe Bergomi di Settala (abitanti duemila) è il più
acqua e sapone, intatto, senza una sillaba fuori frase. Una scoperta molto inconsueta,
anche di qualche umanissimo brivido interiore. Quando gli ho chiesto: ti faceva
effetto l’inno nazionale?, mi ha risposto: “Mi veniva la pelle d’oca e pensavo a mio
padre. Ho perso mio padre a 16 anni: da allora, prima di ogni partita penso sempre a
lui; gli chiedo aiuto; gli dico che mi protegga; penso a come sarebbe bello se ora ci
fosse anche lui».
Ha la mamma Franca che non se l’è sentita di guardare in televisione nemmeno una
partita del Mundial, e che a Barcellona gli telefonò preoccupata: «Giuseppe, sta
attento che tè soffri il caldo, lo sai». Ha le cugine di Melzo che lo coccolano come un
bene mobile di famiglia. Non ha la patente, non ha un’automobile: giovedì scorso
Giuseppe Bergomi campione del mondo ha preso il pullman Jesolo – Milano e ha
firmato il contratto 1982-83 con l’Inter prima di partire per il servizio militare a
Barletta.
Questo ragazzo di 18 anni e mezzo ha fermato Serginho, Lato e Rummenigge ma

soprattutto ha portato in Nazionale un modello pedagogico, un pezzo di albero degli
zoccoli applicato al calcio dei divi. Più a lungo resisterà nell’orizzonte di Settala e nei
suoi ricordi, più a lungo sarà campione.
Ilc campione del mondo che ho trovato in via Monte Nevegal a Jesolo su un poggiolo
rivolto ai campi di grano, meloni e fagioli.

«Col Brasile ho sperato di non entrare in campo»
«Quando Bearzot ha detto vai è passata la paura»
«Ideale per un terzino avere Scirea alle spalle»
«Rossi a Vigo non toccava cibo, poi con i gol…»

– Bergomi, qual è stato l’effetto più appariscente del fregio di campione del mondo?
«Quando a Jesolo andavo in spiaggia, ero finito! Per stare un po’ tranquillo sono
dovuto restare due giorni chiuso in casa».
– Una popolarità da sogno…
«A me anche il Mundial è sembrato un sogno! All’inizio ero come stordito; comincio
a rendermene conto ora, piano piano».
– Come dialogava con il Ct?
«Parlava molto, soprattutto con quelli che giocavano. A ognuno spiegava le
caratteristiche dell’avversario, conosceva gli altri alla perfezione. Ma non parlava
soltanto di calcio; conversava di qualsiasi cosa».
– E con te, il più giovane?
«Si rivolgeva a me chiamandomi “ragazzo“. Io sono sempre incredibilmente teso
prima di ogni partita, ma al Mundial sono entrato in campo sempre calmo, non ho mai
fatto falli stupidi».
– Non c’è un segreto anche fisico nell’exploit?
«A Vigo, io per esempio pesavo 77 chili, due sotto il peso forma. Ho sempre sofferto
il caldo e mi faceva paura persino l’idea delle temperature di Barcellona e Madrid.
Però eravamo curati bene, con vitamine e sali. Alla fine poi, non avendo giocato le
prime partite, io ero anche più fresco degli altri».
– Il fatto è che l’Italia è giunta alla finale più in forza di tutti.
«Il prof. Vecchiet lo aveva però sempre detto a noi: con il tipo di preparazione fatta ad
Alassio – ci diceva – dovreste venire fuori atleticamente nel secondo turno. Ha avuto
ragione.
– Marcasti il brasiliano Serginho, il polacco Lato, il tedesco Rummenigge: come li
ricordi?
«Serginho era abbastanza lento, ma tecnicamente bravo, una bestia fisicamente.
Costretto a giocare di punta. Lato aveva qualche difficoltà, ma io non ho mai visto al
mondo un giocatore correre tanto come lui a 33 anni. Forse perché non stava tanto
bene, Rummenigge non è mai riuscito a scartarmi una volta. In generale, tre duelli
tutti molto corretti».
– Perché sei riuscito a giocare?
«Perché sono stato molto fortunato! Si sono fatti male di seguito Vierchowod,
Collovati, Antognoni, e Gentile si è fatto squalificare».
– Il tuo momento indimenticabile?
«L’attimo dell’esordio contro il Brasile».
– Quando hai visto uscire Collovati, cosa hai pensato?
«Al primo momento mi sono detto “Speriamo di no! Speriamo che il Mister non mi
mandi dentro”. Poi ho sentito la voce di Bearzot: “Ragazzo, scaldati!”, e la paura mi è
passata».

- A che cosa tiene soprattutto Bearzot?
«Alla disciplina, sia in allenamento che fuori. L’ho visto innervosirsi molto se
qualcuno rientrava in ritiro un po’ tardi oppure richiamare bruscamente, ad esempio
Antognoni, se non si rispettava qualche disposizione tattica».
– A proposito di tattica, qual è il tuo ideale difensivo?
«Il massimo di un terzino è giocare con Scirea alle spalle! Scirea è troppo forte, una
cosa stupenda».
– Perché?
«É uno che ti da sicurezza e si prende la responsabilità; è uno che ti guida. Lui mi
diceva: Se ci sono io dietro, va’ tranquillo e tenta pure l’anticipo; ma se non ci sono
io, sta sull’uomo e non rischiare. Con Scirea ci si sente sicuri».
– Dal tuo punto di vista, chi sono stati i migliori azzurri al Mundial?
«Scirea, Conti, Oriali, Collovati: io mi specchiavo in Collovati».
– Anche Oriali è stato molto importante…
«Oriali diceva sempre a Vecchiet: Professore, non mi sono mai sentito così bene in
vita mia».
– Rossi sembrava destinato a fallire, poi di colpo…
«Se non segnava con il Brasile, il suo bilancio mondiale era zero! Il primo gol lo ha
liberato da un mare di pensieri».
– A Vigo Rossi ne sembrava proprio oppresso; quella faccia tirata, smagrita…
«Sfido io, mangiava pochissimo! A tavola io ero seduto accanto a lui e vedevo che
prendeva sempre poco o nulla. Per fortuna, sono arrivati poi i gol a ridargli
l’appetito».
– Hai detto gol, ma qualche critico sostiene che ha vinto l’Italia del catenaccio…
«Non era catenaccio».
– Che cosa allora?
«Il Mister diceva di marcare a uomo “fino alla morte”, parole sue. Anticipare,
anticipare, niente marcature a zona. Poi, terzini in appoggio su entrambe le ali,
Cabrini o Gentile o altri. E partire in manovra, ma “assieme”, altra parola sua,
assieme. Fare manovra di reazione, ma assieme. Una sola volta la squadra è andata in
crisi nera, nel secondo tempo contro il Perù perché proprio non ce la faceva a uscir
fuori».
– I momenti neri li avete superati per compattezza di clan.
«Credo proprio di sì, c’era un’atmosfera molto unita. Nello spogliatoio, prima di ogni
partita, Conti aveva introdotto un’abitudine portata dalla Roma: ci mettevamo tutti
ventidue con le mani tese attorno a Zoff, mezzo piegato su se stesso, mentre Conti
urlava: “E chi se ritira dalla lotta, è un gran fijo de ‘na mignotta”. Ripeto: è stato
soprattutto questo clima a impressionarmi».
Un’impressione davvero Mondiale.