1979 febbraio 7 Da Cismon allo sponsor

1979 febbraio 7 – Da Cismon allo sponsor

Sul tema delle sponsorizzazioni nel calcio, l’organo del sindacato
di Campana, Il Calciatore, ha pubblicato nel numero di febbraio
questa nostra riflessione.

Cismon del Grappa è un comune di 1800 abitanti della Val Brenta,
sul confine tra le province di Vicenza e Trento, zona scordata e
depressa, dribblata dai contributi, un invito a emigrare. Il sole
transita in fretta e tramonta prestissimo lungo il crinale, lasciando
alla gente un sospetto tutto montano di solitudine.
Tredici anni fa l’alluvione sfasciò il fondovalle e, quando si trattò di
costruire la superstrada Trento-Venezia, l’asfalto attraversò giusto
nel mezzo il campo di calcio. Oggi la Polisportiva Cismon ha cento
soci, cinquanta tesserati, un terreno benevolmente concesso pro-
tempore da un industriale trevigiano di intonaci, e partecipa con
una ventina di ragazzi al campionato di terza categoria dilettanti.
La baracca in legno degli spogliatoi è stata sostituita da un
manufatto in muratura, il campo è ora munito di recinzione ma,
nonostante tutto ciò sia stato gratuitamente realizzato da alcuni
appassionati, rimane difficile campare, il campionato costa due
milioni.
Sono andato al sottosuolo,
terza categoria, alla prima
germinazione agonistica, per cercar di capire che cosa può
accadere al
fenomeno-calcio definito da Ormezzano con
l’iperbolico aggettivo “immane”.
Immane – dico io – soprattutto nei costi. Due milioni in una precaria
terza categoria, un milione al giorno di gestione in squadre di C1
come Padova e Treviso, stipendi da 250 mila lire mensili
documentati in squadre di seconda categoria, un settore semi-
professionistico che oramai esiste soltanto per Ugo Cestani e che
in realtà è professionistico dalla
testa ai piedi, stime di
indebitamento del calcio italiano che s’aggirano sui 150 miliardi.
La reazione dello sterminato milione di dilettanti è sempre più
unanime: si dà la caccia allo sponsor. Di recente ho assistito ad
un’assemblea di salute pubblica per sottrarre una nobile squadra
di promozione al pericolo di ritiro dall’attività e la mozione finale fu
un esplicito invito a “trovare uno sponsor”.
Conosco il bilancio di un titolare di grandi magazzini di confezioni
che sponsorizza la squadra di promozione di un comune di
quindicimila abitanti: cinque milioni all’anno a fondo perduto e “il

in

resto”. Il resto sta a indicare un passivo di una settantina di milioni,
accumulato in qualche anno. Sono molti, gli ho obiettato. “Che
dovrei fare? – mi ha replicato felice lo sponsor. – Investire quei soldi
acquistando un appartamento in più e passare le domeniche a
guardarmelo? No, preferisco pagarmi il lusso di vedere dalle
gradinate la squadra mia, con il nome del paese e il mio”. Il calcio
come investimento immobiliare alternativo.
Ma, paradossalmente, chi si definisce dilettante è autorizzato
all’inquinamento: chi è professionista non può invece abbinare le
spa ad un marchio, ad eccezione della Juve che sottintende la Fiat
quanto un connotato, e del Vicenza che negli ultimi dieci anni ha
incassato dal Gruppo Lanerossi sui 900 milioni.
E sì che mai quanto oggi il calciatore sarebbe ideologicamente
preparato così come lo spettatore, alla sponsorizzazione del calcio
professionistico. Da tre anni il calciatore fa pubblicità; media sul
mercato la proposta di saponi per barba e jeans, televisori e
scarpe bullonate; stipula contratti; alleggerisce a volte la pressione
sull’ingaggio potendo contare su sussidiarie entrate; è anche
psicologicamente attento a non depauperare la sua immagine
professionale visto che successo e simpatia del personaggio sono
gli unici indici di gradimento buoni per ottenere budget.
Mandando in campo l’Udinese con il suo marchio cucito sulla
banda dei calzoncini, Teofilo Sanson pagò con un’ammenda di 10
milioni un effetto-pubblicità da almeno trecento milioni. Fece un
ottimo affare e, soprattutto, fece intendere quanto interesse riesca
tuttora a lievitare il calcio nonostante i costi, le difficoltà, le
diffamazioni e l’erosione delle vecchie parole d’ordine. Non mi
stupirei affatto se, riuscendo l’Udinese ad andare in serie A,
Sanson lasciasse persino la sponsorizzazione della squadra
ciclistica di Francesco Moser e dirottasse quei seicento milioni su
un unico veicolo: il Friuli, il calcio di una regione identificato in
un’antica squadra e in un nuovo marchio.
A guardar bene, la sponsorizzazione sta alle spa quanto il
mecenatismo alle ex società sportive: due momenti di
organizzazione giuridica a determinare due economie o, meglio,
due urgenze di bilancio a condizionare due tipi di società di calcio.
I ricchi non sono poi tanto scemi quanto sembra suggerire la
celebre definizione inferta da Giulio Onesti ai dirigenti di football:
nessun ricco mi risulta nell’elenco dei poveri a causa del calcio ed
è vero invece che, per quanto non sempre benemerita, la classe
dei dirigenti ha sempre potuto raccogliere i frutti di una sorta di

tabellare

in pubblicità

sponsorizzazione impropria, strisciante, mimetizzata. A certi oscuri
personaggi cosa costerebbe
l’uscita
dall’anonimato?
Quanto al suo debito, il calcio è in fondo di una straordinaria
aderenza al tipo di società che lo esprime; gli andasse male con la
grande questua di un mutuo allo stato, avrebbe sempre a
disposizione “i ricchi marchi” degli sponsor cui vendersi. Chissà se
gli intensi allarmi lanciati a turno da Franchi e Carraro sulla
possibile paralisi del calcio non sono proprio un politicissimo modo
di premere su entrambi gli sbocchi: il mutuo e gli sponsor.