1978 giugno 27 L’Olanda paga l’arroganza tattica

1978 giugno 27 – L’Olanda paga l’arroganza tattica
CALCIOMONDIALE / Tutto il secondo tempo dei “tulipani” è stato un festival di
football offensivo

BUENOS AIRES – Fa impressione una città di quasi dieci milioni di abitanti che esce
in strada e formicola in ogni bugigattolo, con i suoi bambini e i suoi vecchi, perché
l’Argentina è campeon de futbol. Raccontare Buenos Aires, l’altra notte, è descrivere
la marea, il delirio, anche se diverso, molto diverso da quello che conobbi otto anni fa
Rio de Janeiro, subito dopo il terzo mondiale vinto dai carioca. A Rio ci furono cento
morti, la maggior parte dei quali per collasso cardiaco, stremati dall’alcol e dal ballare.
Qui a Buenos Aires, una fiesta più naturale, di tono campesino, non meno stordente
ma non altrettanto infartuale, in strade sepolte da giornali tagliati a coriandoli, suoli di
effimere carte pestate dai piedi e sollevate dal vento, come nei giorni importanti di
Brooklyn, a New York.
Venticinque milioni di argentini hanno vinto il loro primo mondiale. “L’anno scorso, i
calciatori argentini che giocano in squadre straniere – ha dichiarato Luis Menotti –
hanno segnato più di 350 gol. Io spero che la nostra vittoria li convincerà a ritornare.
Noi di nazionali ne abbiamo due, questa che ha vinto e loro”.
È da una vita che questa terra esporta talenti, ma soltanto ora ha potuto metter piede
anche come squadra nel pantheon del calcio.
L’Argentina è un paese enorme, sterminato. L’altro giorno un annuncio economico
poneva in vendita una fazenda di un milione 126 mila ettari (!) al prezzo di sei dollari
l’ettaro. Orizzonti a noi sconosciuti, che vanno dai ghiacci dell’Antartide alle farfalle
grandi come gabbiani del clima tropicale delle cascate di Iguazu. L’Argentina è poco
popolata, nemmeno il doppio dei 14 milioni di olandesi, ma ha una superficie 114
volte quella dell’Olanda, grande più o meno quanto la Lombardia. A riflettere su
queste cifre, nessun argentino poteva nemmeno per scherzo ammettere che l’Olanda
avrebbe vinto allo stadio colorato del River Plate.
Per vincere, l’Argentina ha dovuto ripudiare la propria cultura calcistica. S’è scordata
del tango, del calcio camminato, che s’affida alla sola superiorità di tocco, e ha
travasato dall’Europa la velocità. Questa Argentina non troverebbe un ruolo nemmeno
per i Sivori, i Maschio, gli Angleillo di un tempo. Corre a aggredisce, corre a attacca,
corre e si distende, non a caso esaltando soprattutto le qualità europee di Kempes.
Terza squadra del mondiale è il Brasile di Coutinho, cui si imputa un football infedele
all’anima popolare e invece votato a tattiche e atletismi di marca europea. Vincitrice
del mondiale è l’Argentina di Menotti, che ha ripudiato la melina e i mille sofisticati
trucchi del palleggio. Segno che, attraverso il Brasile e l’Argentina, si possono forzare
persino gli istinti, l’etnos, la mentalità.
Per riuscirci occorre un lavoro “militare”, un clima militare, una pianificazione che
nessuna democrazia pallonara potrebbe consentire. Da due anni Menotti pianifica e
fin dallo scorso febbraio i selezionati sono a sua disposizione, sottratti ai rispettivi
club: il River Plate ha dovuto giocare in campionato privo per dei mesi di ben nove
giocatori! Il prezzo di tanto esclusivismo lo si intuisce dalla dichiarazione rilasciata da
Menotti subito dopo la finale, durante la quale ha fumato non meno di 60 sigarette, in
preda a un tic che gli fa sollevare ogni momento le ginocchia al petto, in panchina:
“Rifiuto – ha detto – la riconferma dell’incarico. Con la nazionale ho chiuso, è stata
una esperienza bellissima ma logorante. Non voglio più vedere in faccia un calciatore
per almeno sei mesi”.
È il pedaggio alla segregazione, a un lavoro su calciatori-pedine, a un carico di
preparazione atletica che nessun argentino di vecchia scuola avrebbe accettato. Omar

Sivori quasi impazzì in Italia a contatto con gli allenamenti imposti da Heriberto
Herrera: lo stesso Sivori non si sarebbe mai adattato a Menotti e alla sua squadra
collettivista e corridora nella quale ha consentito la presenza di una sola vera vedette,
Kempes, innestato all’ultimo momento, unico giocatore non fabbricato a stampo.
Tolti il portiere Fillol, il centromediano Passarella, l’interno Kempes e l’ispiratore
Ardiles, l’Argentina non ha altri grandi giocatori. Ciò che ha ottenuto le arriva da quei
quattro e, soprattutto, dalla base atletica, dalla velocità. Ma nemmeno tutto ciò
sarebbe bastato a vincere il mundial, e nemmeno gli arbitri delle prime partite, e
nemmeno il Perù. La spinta decisiva gliel’ha paradossalmente data l’Olanda.
Il vizio dell’Olanda è di essere un paese piccolo, troppo piccolo, 114 volte meno
dell’Argentina. Un paese con un milione di tesserati su una popolazione di soli 14
milioni. Un paese che ha inventato l’Ajax, Cruyff e il calcio totale nonostante la nulla
tradizione e i campi sotto il livello del mare. Un paese perciò innamorato di se stesso,
narcisista, un po’ loco, pazzo come dicono gli spagnoli, guascone, presuntuoso,
incapace di rendersi conto che David abbatté Golia. Un paese che, avendo espresso
schemi stupendi e atleti da riproduzione della razza, tratta tutte le partite come
proprietà privata, con un complesso di superiorità da pigliarli a sberle.
In finale con l’Argentina, tutto il secondo tempo degli olandesi è stato un festival di
football, un messaggio di manovra offensiva, una lezione di centrocampo, una
proposta di calciatori-atleti. Sul palo di Rensenbrink, al 90′, è morta la loro
strameritata vittoria ma a quel punto è scattato il clic, un arrembaggio da primi della
classe, con una difesa tanto scoperta da non poter evitare il collasso nemmeno di
fronte a Calloni-Tosetto, figuriamoci in faccia a Kempes-Bertoni!
Un suicidio da far rabbia, da andar giù in campo e picchiarli perché non c’è calcio
senza difesa e nessun calcio offensivo prevede alle spalle la terra di nessuno.
Non è stato Gonella a punire gli olandesi. E non ci sarebbe riuscita neanche la
riformata Argentina di Menotti e Kempes. Soprattutto l’Olanda ha battuto l’Olanda,
per mera suggestione tattica, punita dal contropiede, che è l’arma di chi sta subendo.
“Il nostro è calcio offensivo – ha ammesso Menotti – ma contro il forcing degli
olandesi siamo stati costretti al contropiede. Noi abbiamo vinto il mondiale in
contropiede”.
Oltre al vizio di sentirsi super-uomini, gli olandesi non hanno avuto a disposizione i
Rep e i Rensenbrink formato-Europa, il primo per scadimento di condizione, il
secondo per troppo amore dei propri stinchi. Ma, con tutti i loro incredibili complessi,
gli olandesi restano lo zenit del calcio degli anni ’70. Da Monaco a Buenos Aires, la
continuità è loro, secondi allora, secondi oggi, nessun altro avendo raggiunto un
establishment di tanta qualità e di tanta didattica.
I mondiali passano, il football resta. E il loro, pur privo del favore di giocare in casa, è
il più interessante e il più ricco di esempi. Butto i coriandoli anche a loro, pur
meritando sassi.