1975 aprile 4 Se non sa divertire, non è calcio

1975 aprile 4 – Se non sa divertire, non è calcio

RIO DE JANEIRO – Il Dc 10 della Lufthansa vira dolcemente sopra
Rio. E’ l’alba. L’hostess porge un panno bollente, profumato di
mentolo, che pigiato sulla faccia sembra privarti del sonno. Gli
occhi sono adesso tutti per Rio, città disegnata in persona da Dio.
“Hoy no tiene calòr”, mi avverte il doganiere capendo dal pullover
di lana che arrivo dall’inverno. Di giorno il termometro segnerà
36,5 gradi con una minima di 20: ma questo, per i carioca, non è
calòr. E’ soltanto caldo di transizione, l’estate è finita, il carnevale
risale oramai agli ultimi giorni di febbraio e nessuno ricorda più i
180 morti di quel giorno, tra incidenti, sbronze ferali e assassinii.
Il Brasile pare una monarchia. Le cose migliori qui le battezzano
“real”. I pullman con l’aria condizionata si chiamano real, il
ristorante con il miglior pesce è rey legitimo dos pexados, Pelé è o
rey del calcio, Zico il re dei re. Un mondo di superlativi, dove
uomini e cose accadono per il gusto di essere definiti secondo un
linguaggio colorito, caldo, musicale.
Carioca è parola antica, un appellativo di luogo che viene su dalla
prahia, la spiaggia. Chi è di Rio, da Copacabana a Ipanema, è
carioca, gioca il futebol come danzare la samba e balla la samba
come dondolare in dribbling. L’esemplare dello spirito carioca è
Garrincha, uscito torvo dai margini della foresta per inventare tra
gli anni ’50 e ’60 le finte più inevitabili che il calcio ricordi.
Garrincha è un soprannome e significa uccellino. Quando gli si
paravano davanti terzini di tutto il mondo, lui li chiamava con
irrisione Joao, peggiorativo per dire toro: davanti all’uccellino di Rio
erano tutti dei bufali.
La spiaggia di Rio è profonda, la sabbia chiara e salina ti mormora
sotto i piedi come impaccando neve alta e fresca, il vento atlantico
è robusto, il sole ti tira via la pelle con le pinze. Sulla spiaggia i
carioca giocano a calcio; per chilometri ci sono porte fisse, reti
fisse, fettucce per disegnare il campo. Sulla spiaggia si giocano
tornei con i risultati riportati dai giornali e a volte teletrasmessi, ed
è un
il controllo della palla è
fondamentale, di sghembi, merletti e precisione, il gusto del
numero d’abilità, il tunnel come una bifora tra le gambe. La
spiaggia dà autentici campioni ma non sempre i campi d’erba
riescono poi a ratificarli: nel mettere le scarpe e nello scoprire la
terra, molti di quei piedi non valgono più nulla e tornano a divertirsi
a Copacabana.
Divertire, divertirsi, se non sa divertire non è calcio: questa è
l’etichetta del futebol brasiliano, in particolare nel suo cuore

futebol veneziano, dove

carioca, di costa, spiaggia e passione. Qui, in tale nucleo, lo trovo
distante anni luce dal calcio italiano che piace soltanto se vince,
che tifa con accidia, che si racconta senza fantasia, che gioca
calcolando anche le briciole dei calci d’angolo.
Il futebol carioca se non diverte non è nemmeno calcio e, a
rendermene conto, sono andato al Maracanà, lo stadio “più” del
mondo, dove Zico ha fatto pochi giorni fa record segnando da solo
sei volte.
Se ci vanno in sessantamila, quanti ne tiene ora San Siro, il
Maracanà sembra vuoto, potendo ospitare 200.000 spettatori
abbondanti, a larghi centri concentrici, dove i posti popolari si
chiamano “general” e costano dieci cruzeiros (1 cruzeiro = 36 lire)
e le tribune “archibancada” a 50 cruzeiros. Questi i prezzi che ho
controllato alla partita Flamengo – S.Cristovao, all’esordio del
girone di ritorno del campionato di Rio.
Sei gol del Flamengo, tre di Zico, i giocatori che non rinunciano
mai al numero pur non essendo più le foche di certi languori
sudamericani dopo l’innesto di cultura europea sugli schemi. Il gol
come una voglia insistita, una ninfomania d’area di rigore.
Il tifo lo chiede, va al Maracanà per contare i gol e le prodezze
tecniche. Gli “uuuhhh” sono riservati a chi inciampa in tocchi
indegni o ha l’aria di non saperci stare. Il tifo ha l’orchestra,
batteria, trombe, tromboni, tamburi. Non è un tifo anarchico; tutto è
diretto, la regia sta nell’aria, nel ritmo che viene dal sangue, nella
tradizione. E’ un tifo allegro, divertito, più mulatto che bianco,
infarcito di festa, senza violenza, mischiato di sfida non di
cattiveria. In Italia, gli 0-0 ammutoliscono quasi tutti i pubblici,
paralizzati dalla paura di perdere e non sufficientemente ricchi di
“calòr” naturale. A Rio lo 0-0 viene scandito quasi fossero grappoli
di gol perché lo 0-0 carioca è un atto di fede, l’attesa certa del gol,
soltanto un accidentale ritardo della verità.
A centinaia vestiti in rosso e nero, che sono i colori del Flamengo,
cantano dai sottotribuna “Do-re-mi-fla…” e riescono con tempismo
da Filarmonica di Berlino a staccare nitidi olé da silenzi totali,
istantanei non appena un giocatore della squadra avversaria pone
piede nell’area di rigore, il santuario del Flamengo.
E’ speciale anche chi racconta questo futebol goleadoristico e
questo pubblico. Attorno al terreno di gioco si affollano radio e tele
cronisti, microfono in mano e fili lunghi decine di metri che
scivolano
Intervistano sempre e
chiunque, durante la partita, da una panchina all’altra, in eterna
diretta, approfittando di un incidente o di un corner per pigliare al
volo frasi di giocatori e giudizi dei tecnici. Cuffie, walkie-talkie e

l’erba come serpenti.

tra

caschi corrono frugando la partita e riuscendo a raccontarla prima
che faccia risultato, carpendo le risse, gli insulti, le dichiarazioni più
“a caldo” che il calcio conosca, tra nugoli di segnalinee, arbitro,
poliziotti in casco blu e striscia bianca. Durante l’intervallo fanno
salotto.
Dai microfoni raccontano come Jorge Curi che, prima di ogni
trasmissione, inala a lungo la gola, un torrente di parole,
modulazioni, sussulti, iterazioni, onomatopeie, urla che affondano
liberandosi nel fatidico “gooolllasssooo”, cronometrato durante il
mondiale del ’70 in Messico anche in un minuto abbondante: quel
gol era di Pelé, il primo nella finalissima contro l’Italia.
Il residente della confederazione brasiliana di sport è l’ammiraglio
della marina Nunes e il Ct della nazionale di calcio, Claudio
Coutinho, si è appena dimesso da capitano ma non c’è nemmeno
una sillaba di militare in tutto il mondo carioca, dalla tattica al tifo,
dai personaggi al giornalismo che, anche scritto, non si sottrae al
fantastico.
“A Rio c’è almeno la spiaggia, qui a San Paolo c’è soltanto il
football, sono tutti pazzi, si gioca di martedì, di sabato, di
domenica, coppe e campionato” esclama Oscar Paulillo, 72 anni,
da una vita al Palmeiras di San Paolo. E’, carioca o paulista, il
futebol come evasione di un popolo grande, ricco di risorse e
povero di giustizia sociale, che s’affaccia ora a una finestra di
democrazia e che, al mondo, offre da sempre il più bell’esempio di
avversione al razzismo.
A piedi scalzi sulla sabbia salina o a scarpe bullonate al Maracanà,
è un calcio naif per fare cruzeiros.