1975 aprile 30 Vittoria del divo

1975 aprile 30 – Vittoria del divo

Il nostro ordinamento giuridico prevede l’immunità, i reati di
vilipendio e oltraggio. Il nostro è il paese dei “dottori”, lo siamo tutti
soprattutto se non laureati. Il nostro è anche il paese dove vivono
floride agenzie di collocamento nobiliare, specializzate nello
scovare sangue blu a pagamento.
Parliamo tanto di democrazia e giustizia sociale ma il privilegio, da
qualsiasi parte provenga, conserva un
fascino da società
ottocentesca. “Lei non sa chi sono io ” è manifesto che si attaglia
perfettamente a certi residuati bellici della nostra cultura.
Come spesso accade, il calcio funziona da specchio della società.
Il privilegio del calcio è il divismo. La figura del divo delle pedate
coagula tutte le esagerazioni: nemmeno i silenzi di Greta Garbo o
il fatalismo di Gloria Swanson sono pari alla pretenziosità degli “dei
degli stadi”.
Il lavoro di équipe, le esperienza comunitarie, la politicizzazione
delle masse, la partecipazione studentesca, tutto ciò potrebbe far
pensare a un tramonto del divismo, ad una caduta del mito
individuale, a un ripudio del superman. Al contrario, il calcio
smentisce questa logica.
L’idolo delle figurine colorate è ancora vivo, l’autografo del
campione è ancora una degnazione. Il divo sì fa transfert, annulla
nella sua inarrivabilità tecnica e nella sua iperbole popolare la
banalizzazione della vita quotidiana. Alla routine delle piccole cose
il divo oppone il successo, ideologia della società del benessere.
Il divo può tutto. Il divo non tollera sgarbo. Il divo si sente protetto
da una sorta di immunità, se ne scalfisci anche un grammo di
vernice lui si sentirà oltraggiato e vilipeso con psicologia di casta.
Lo dimostra l’ennesimo caso-Rivera, che non è un accidente del
Milan ma un appuntamento obbligato dell’intero ambiente del
calcio all’italiana.
Quando il presidente Buticchi afferma che “Rivera può essere
ceduto ad altra squadra” dimostra di vivere in un altro pianeta, un
pianeta in cui non esistono divi, casi speciali, calciatori-bandiera.
Quando l’allenatore Giagnoni applica la disciplina anche con
Rivera “perché i giocatori sono tutti uguali” dimostra d’essere più
utopista di Tommaso Moro.
Perfino nelle sue Coree e nei suoi languori, Gianni Rivera s’è
costruito un monumento a forza di tocchi visto che con quei piedi
riuscirebbe a suonare anche l’arpa. Rivera incanta proletari ed

esteti, mamme e bulli. Strapagato, frequentatore di panfili castelli
miliardari ed eccentrici frati, riesce purtuttavia ad avere dalla sua
anche le gradinate di San Siro, la gente che lo dipinge sui cartelli
con l’aureola dei santi attorno alla testina.
Nemmeno un petroliere come Buticchi e un dogmatico come
Giagnoni riusciranno a demistificare Rivera. Sarà lui, l’abatino fatto
divo, a cacciarli entrambi dal Milan, magari con l’appoggio di
finanziatori svizzeri. Il che fa tanto chic.