1990 ottobre 24 Uniti e diversi

1990 ottobre 24 – Uniti e diversi

Ha scritto «Gli uomini che fecero l’Italia» per riparare una lacuna della sua
adolescenza quando, fra i 10 e i 15 anni, leggeva «tutto e di tutto» e lamentava «una
mancata guida dei protagonisti del riscatto nazionale». Lo racconta Giovanni
Spadolini nella prime righe della prefazione: lo studio come regola, la ricerca come
metodo, la passione civile come movente.
Qualunque sia il giudizio del tempo su Spadolini, una cosa si può definitivamente
affermare: non appartiene al coro; è una figura atipica, un caso non facilmente
definibile anche se, per sorridente iperbole, Spadolini una certa opinione di sé ce
l’ha ben ferma. Quando, un paio d’anni or sono, Arrigo Levi gli chiese se preferiva
essere chiamato presidente, professore o direttore, rispose senza esitazione:
«Direttore, perché comprende tutto». Quei 17 anni al «Resto del Carlino» e al
«Corriere della Sera» non lo hanno mai più lasciato.
Non è sempre facile distinguere in Spadolini il giornalista, lo storico, il politico, il
bocconiano, l’uomo di cultura. Ma si può scorgere senza fatica la bussola di
percorsi paralleli, che si accompagnano senza confondersi. Ed è la traccia della
conoscenza, l’accanimento così spadoliniano di spiegare l’Italia agli italiani,
cogliendo i fili della persistenza a dispetto della provvisorietà del nostro stile di
vita.
Quando, come di recente in prima pagina del Gazzettino, ha scritto: «Mi onoro di
essere collocato insieme con Giovanni Amendola, che giudicò l’avvento dello stato
nazionale unitario come la scoperta più rivoluzionaria della nostra storia; una
patria che diventava Stato, uno Stato che coincideva con la patria», Spadolini
rivendica un sentimento piuttosto che una formalità della storia. La sua unità è tutta
laica, estranea sia alla tentazione di ogni «ismo», primi fra tutti nazionalismo,
centralismo, passatismo, sia ai trucchi della retorica e della statolatria. Il suo Stato
introduce la modernità, non l’inefficienza; la sua unità riconosce le diversità, non le
inculca.
Questa è una corda particolarmente sensibile nel Veneto, regione che Spadolini
conosce molto bene anche perché non ha mai nascosto di amare Venezia quanto
Firenze pur denunciando la crisi di entrambe come fabbriche di cultura. Se nel
Settecento il Veneto pagò il declino di Venezia anche con la nascente diffidenza
delle province di terraferma verso la loro capitale e con un’oligarchia per lo più
opaca alle correnti dell’illuminismo, è altrettanto vero che da Zanella a Fogazzaro,
giù fino a Buzzati, Comisso, Piovene, Noventa, Parise, anche poeti e scrittori che
diedero voce all’Ottocento e al Novecento veneti testimoniano una realtà ricca
perché complessa, intellettualmente «autonoma», dove la moderazione cattolica
s’intreccia con l’evasione dal conformismo e con il desiderio lucidamente eretico di
uscire dalle sagrestie.
In una regione come questa, il cui capoluogo gode in pratica di un’extraterritorialità
decretata dalla pressione dell’opinione pubblica internazionale e dove campanili &
municipi scoprono oggi nelle radici di ieri un punto di tenuta contro la brutale
omologazione del «villaggio globale», ragionare di unità e di particolarismo, di
patrimonio comune e di delirio separatista, di Stato senza credibilità istituzionale e
di Regioni da potenziare, tutto ciò può preparare un nuovo Ri-sorgimento. É già

finita questa Repubblica se non ri-conquisterà il consenso della società civile: qui
sta l’assoluta priorità per l’Italia, rifondare l’unità sulla sintesi alta invece che sul
controllo burocratico.
Arturo Carlo Jemolo diceva che lo storico è destinato a conversare con i morti;
Giovanni Spadolini lavora sulla nostra storia soprattutto per conversare con i vivi.
É riuscito, come pochi altri studiosi italiani, a togliere la storia dalla muffa della
memoria patria: i suoi «Uomini che fecero l’Italia» si siedono accanto a noi. E non
sono ospiti di pietra.