1990 luglio 22 Voglia d’autonomia

1990 luglio 22 – Voglia d’autonomia

Regioni // Dal Veneto alla Sardegna, dalla Dc al Pci: tutti chiedono nuovi poteri

Dal Veneto alla Sardegna, dai democristiani ai comunisti. Nella stessa giornata
di venerdì, il presidente della Regione Veneto, Cremonese, e il responsabile
organizzativo del Pci, Fassino, hanno parlato di autonomia.
In Sardegna, l’esponente occhettiano dichiara che la «nuova formazione politica
dovrà essere fondata sui principi del federalismo e del regionalismo. Un partito
nazionale e unitario a forte caratterizzazione autonomista». A Vicenza, il
doroteo Cremonese va più in là: «Vogliamo per il Veneto maggiore autonomia.
Non aumentare le Regioni a statuto speciale, ma i poteri di quelle a statuto
ordinario».
In parole povere, nessuno conosce i partiti meglio dei partiti. E questi sanno
benissimo che non si accorderanno mai a tal punto da rendere possibile una
modifica della Costituzione, necessaria per trasformare tutte le Regioni a statuto
ordinario (come il Veneto ad esempio) in Regioni a statuto speciale (come ad
esempio il Friuli-Venezia Giulia senza giungere alla super autonoma Provincia
di Trento). Poiché proprio tra i partiti è massima la sfiducia in una «grande
coalizione» riformista, per sfuggire ai tempi biblici non rimane che la
gradualità.
Quelli che Cremonese chiama «nuovi poteri» alle Regioni ordinarie altro non
sono che l’aumento delle competenze delegate dallo Stato alle Regioni, secondo
la mai tramontata idea di Carlo Bernini, il più lesto nel dare nobiltà istituzionale
alle parole d’ordine della Liga Veneta. É già accaduto con l’autonomia, con il
no al soggiorno obbligato dei mafiosi e in certa misura con la maggiore
attenzione alla cultura dell’identità. Temi oggi comuni a tutta la Dc veneta,
sinistra compresa.
Questo per dire che la Liga Veneta prima e le Leghe poi una funzione l’hanno
avuta e ancora possono averla, come chiarì assai bene subito dopo il voto del 6
maggio scorso il filosofo Salvatore Veca, dichiaratamente comunista e
presidente della Fondazione Feltrinelli. «Demonizzare è idiota – disse. – Sarebbe
presuntuoso, persino patetico, pensare che abbiano dato il loro consenso alla
Lega Lombarda soltanto ragionieri impazziti, xenofobi arrabbiati o casalinghe
frustrate».
Oltre che idiota, è rischioso trattare con la puzza al naso un movimento balzato
al quarto posto tra i partiti in Italia, al secondo in Lombardia, con punte del 28%
a Como, del 26% a Bergamo o del 25% a Brescia. Chi ha avuto la grande
fortuna di lavorare a Milano, sa che non esiste in Italia città più rapida
nell’integrare gente di tutte le provenienze con una vocazione – forse più che
europea – addirittura americana. No, non si può spiegare un fenomeno di tale
portata con la lente deformante del razzismo, e non a caso il capolista della
Lega al Comune di Milano era un’avvocatessa a suo tempo laureatasi con una
tesi sugli statuti regionali.
É la domanda di autonomia a prevalere, perché la sola a garantire un qualche
sblocco alla protesta. Protesta che non ha come bersaglio i partiti, ma la
partitocrazia, cioè una degenerazione che umilia prima di tutto la Costituzione
repubblicana e che negli anni scorsi non aveva provocato reazioni elettorali
soltanto perché il sistema partitocratico era ancora puntellato dal «fattore
comunismo». Di fronte allo sfacelo dei sistemi dell’Est e al penosissimo parto

del post-Pci, sembra oggi perso nella notte dei tempi un tipo di appello come
quello lanciato anni fa da Indro Montanelli perché i benpensanti si turassero
pure il naso ma votassero ugualmente Dc. Oggi il 20% degli italiani dice no al
voto (astensioni, schede bianche, schede nulle) e oramai il 13% sceglie nuove
formazioni (soprattutto Leghe e Verdi), mentre i partiti tradizionali sono scesi
complessivamente al 67%.
La Liga Veneta aveva imboccato un irreversibile declino per tre ragioni: 1) il
frazionismo di bassissima qualità; 2) un’intolleranza per niente veneta; 3)
l’assorbimento nei partiti della spinta all’autonomia. Una Liga Veneta in crisi
ha ricuperato il 6 maggio voti e rappresentanza locali soltanto perché
beneficiaria del successo della Lega Lombarda, più organizzata e meno logorata
dal folclore o dai clan o dalle personalizzazioni. Tutto ciò pare sfuggire del tutto
a Rocchetta, il quale non sa di gestire un successo altrui e immagina di contare
per quello che dice non per
la protesta che altri hanno alimentato
«naturalmente» nel Veneto e altrove.
Chissà se i partiti hanno almeno capito che l’autonomia è una cosa troppo seria

per lasciarla in mano alla Liga. Rocchetta ha fatto di tutto perché lo capissero.