2005 gennaio 12 Tsunami

Indonesia – 26 dicembre 2004: uno dei più catastrofici disastri naturali dell’epoca moderna,
che ha causato centinaia di migliaia di morti. Ha avuto la sua origine e il suo sviluppo
nell’arco di poche ore in una vasta area che ha riguardato l’intero sud-est dell’Asia, giungendo
a lambire le coste dell’Africa orientale. L’ evento ha avuto inizio alle ore 00:58:53 del 26
dicembre 2004 quando un violentissimo terremoto – con una magnitudo momento di 9,3 ha
colpito l’Oceano Indiano al largo della costa nord-occidentale di Sumatra (Indonesia). Lo
spostamento della crosta terrestre sul fondo dell’ Oceano ha causato una serie di onde
anomale alte fino a quindici metri che hanno colpito e devastato parti delle regioni costiere
dell’Indonesia, dello Sri Lanka, dell’India, della Thailandia, della Birmania, del Bangladesh,
delle Maldive giungendo a colpire le coste della Somalia e del Kenya (ad oltre 4.500 km
dall’epicentro del sisma). Si stima che 250.000 persone siano morte in quegli eventi, di cui
circa un terzo bambini.

Vi proponiamo l’ ultimo articolo scritto da Giorgio Lago il 12 gennaio 2005

“Credetemi sulla parola. L’”onda nel porto”, traduzione del giapponese tsunami, preme da un pezzo
anche dentro di noi pur ignari di quel significato. Il sottosuolo dell’animo umano è illimitato.
Quando furono scoperti i campi di sterminio nazisti e i siberiani gulag comunisti, l’Europa
ricominciò a pensare che “Dio è morto”.
E quando, quattro anni fa, gruppi di terroristi suicidi polverizzarono le Torri Gemelle di New York
e migliaia di civili di un centinaio di nazionalità il mondo disse che nulla sarebbe stato più come
prima. Che la nostra stessa vita quotidiana sarebbe da allora cambiata.
Oggi si aggiunge qualcosa di totalmente diverso, una frattura che dalla profondità dell’Oceano
Indiano piomba a galla tra di noi anche sulle sponde più illese. In questo caso si cambia linguaggio:
non diciamo mondo, diciamo pianeta; non uomo ma natura; non più onnipotenza tecnologica e
invece imprevedibilità geologica. E’ bastato un solo secondo perché la frattura del fondale mettesse
in moto l’energia di una sproposita strage a distanza.
E sacrosanto, perfino banale, ripetere ora come una giaculatoria del giorno dopo che lo sviluppo va
ripensato, magari secondo l’insuperata formula del “capitalismo sociale di mercato” dei grandi
liberali tedeschi e italiani dell’immediato secondo dopoguerra. Oggi quel “sociale” sta nella
pattumiera della globalizzazione.
E’altrettanto vero che proprio il mondo che si definisce globale dovrebbe estendere non soltanto i
mercati e il business ma anche le reti, le postazioni, i sensori, le sentinelle della sicurezza buona per
tutti i paesi. Se come nel caso dei maremoti il meglio sta nelle Hawaii e nel Giappone bisogna pur
fare qualcosa per il Bangladesh che non ha nemmeno un dollaro da dedicarvi visto che è privo
anche del dollaro per sfamarsi.
E’anche vero che se il turismo è una grande risorsa economica, il simbolo di un mondo più
benestante e dunque più mobile, da solo non può dettare le regole del territorio come una nuova
religione urbana.
Le vittime del maremoto erano musulmane, indù, cristiane, buddiste. Il maremoto non fa
distinzioni, il turismo deve farle con un passo precauzionale indietro piuttosto che un passo invasivo
in avanti.
Se non cambiamo neanche adesso, se non sentiamo che voltandoci dall’ altra parte finiamo per
decretare ancora che “Dio è morto”, allora davvero si mette male. La natura farà il suo, l’uomo on
farà la sua parte.
La notizia più clamorosa di questi ultimi mesi è che i potentissimi Lloyd di Londra, i re delle
assicurazioni mondiali, si sono alleati con gli ambientalisti! E lo scienziato della Nasa e fisico della
Columbia University di New York, prof. Vittorio Canuto, intervistato dal settimanale “L’Espresso”
in questi giorni in edicola, ha dimostrato – sottolineo prima dello tsunami – che l’ambiente è in preda
a epocali cambiamenti climatici dovuti all’ effetto serra.

E la prestigiosa rivista scientifica “Science” ha portato l’esempio degli eschimesi che nella loro
lingua ignoravano da sempre i termini corrispondenti ai passeri e ai salici perché mai esistiti tra
loro. Adesso gli eschimesi hanno dovuto inventare due parole ex novo visto che i passeri arrivano e
che i salici crescono.
Ma a questo punto dobbiamo dimenticarci dell’uomo. Cioè uscire dall’ idea, un po’ illuministica un
po’ onnipotente un po’ utopica, che l’uomo possa tutto e via via organizzare un mondo perfetto,
sicuro per tutti, pacifico, dedito al lavoro quanto ai piaceri della vita.
Non è così, non lo sarà mai.
Il traguardo sembra sempre più alla portata, in realtà mantiene sempre la distanza. Ciò non deprime
il fare e meno che meno il dover fare; lo rende più umano, più gratuito, più consapevole.
Il progresso è un nobilissimo destino se si conosce la sua precarietà: i contadini che in un lampo di
grandine vedono distrutta un’intera stagione di lavoro ma ricominciavano sempre da capo sono gli
unici veri filosofi del nostro tempo.
Il pensiero dominante che giunge dalla immane frattura sottomarina della Terra in pieno Oceano
Indiano è questo. Noi siamo creature capaci di costruire Atomiche di non so quale potenza ma alla
fine siamo niente, zero, ospiti provvisori, fuscelli, un soffio di Superuomo ridicolizzato dallo
tsunami di turno.
Alla tragedia tuttora in corso sono stati attribuiti significati addirittura “politici”. Da parte mia ne
traggo soprattutto una parabola dimenticata dall’ uomo contemporaneo. Quella frattura torna a
parlarci come la Bibbia. Siamo creature a tempo, e il tempo ci è ignoto.”