2004 febbraio 16 Pantani

2004 febbraio 16 – Pantani

Un Pantani ha fatto morire l’altro Pantani. L’ombra dell’uomo ha oscurato il sole del campione,
avendo per ultimi compagni i farmaci. Abituato alle folle, ha mollato la vita in solitudine. Capace
di vincere le impossibili pendenze dei gran premi della montagna, é rotolato giù dalle asperità del
vivere che si portava dietro come la borraccia in corsa.
Quando dal telegiornale di ieri notte ho sentito la notizia, non ho pensato che avesse detto basta al
destino un grande ciclista ma che si fosse consumato fino in fondo un ambiguo simbolo del nostro
tempo: icona positiva e, allo stesso istante, irrimediabilmente negativa. E’ morto a Rimini, la città di
Federico Fellini, sperduto nel silenzio di una camera qualunque come l’indimenticabile vecchietto
nella nebbia del film Amarcord.
Marco Pantani non era finito. Aveva appena compiuto 34 anni, più giovane di Schumacher o di un
Maldini, e avrebbe potuto continuare, magari longevo in salita come un Bartali d’altri tempi.Ma era
finita in lui la voglia di essere Pantani, si era come separato dalla parte più felice di sé stesso: la sua
lunga corsa a tappe era giunta all’ultimo traguardo.
Si era stancato del ciclismo, di noi giornalisti, della popolarità e, prima di tutto, di sé stesso. Pochi
mesi fa, in un’intervista a “Repubblica”, si era spiegato bene su questo punto cruciale:”Mi sono
stufato”, disse sicuro e per chiarire meglio aggiunse:” Ho deciso di fregarmi di tutto.”
Niente gli diceva più niente, né le vittorie né i dubbi sulle vittorie. La sua autopsia era già stata
eseguita.
Non era più nemmeno il fantasma del “pirata” delle fantasie popolari, primo al Giro e primo al Tour
nello stesso anno, come capita soltanto a campioni che si contano sulle dita di una mano. Alla
lunga il doping gli avrebbe insidiato il podio sotto le scarpette.
Per lui era cominciata tutt’altra corsa, accompagnata passo a passo dai carabinieri, dalle inchieste
penali e federali, dai processi, dai deferimenti, da dure condanne e da timide assoluzioni, da analisi
che andavano oltre l’ematocrito. Sotto esame era la carriera, un mito d’asfalto che aveva fatto
ritrovare al ciclismo il “personaggio” che da tempo gli mancava: i tanti Pordoi e Izoard, padroni
dell’orizzonte, sognano sempre il ritorno di un altro Coppi o di un altro Merkx.
A Pantani si era soliti chiedere quali rapporti avrebbe utilizzato per scalare il tappone di turno. Era
la bicicletta l’arma del campione dalla avventurosa bandana. Di colpo, e da quattro anni, un nome
sinistro non l’ha più abbandonato: Eriotropoietina, detta Epo, l’ormone che fabbrica globuli rossi
per aumentare le resistenza alla fatica.
E’ come se tutto gli fosse entrato in eclisse. Non soltanto il presente e il futuro, ma lo stesso
passato. Le ombre del doping sono sempre retroattive, rimettono in discussione tutto, lasciano
dubitare, seminano il sospetto. Un giorno hanno definito Pantani “un prodotto di laboratorio”.
Non importa certificare con il timbro sanitario quale male Pantani curasse ora a Teolo ora ad
Abano Terme. La depressione e la disintossicazione sono i due volti di una sola malattia:
l’autostima che se ne va assieme alle artificiali illusioni.
Mentre scrivo queste righe, sento che é difficile ricordare Pantani. Perché i Pantani sono tanti.
Una pedalata gotica, fatta per guardare in alto. Gli scalatori sono campioni verticali. Nessuno potrà
dimenticare la maglia rosa e la maglia gialla di Pantani, indossate con occhiate romagnole, con uno
stile da predatore e con un sudore speciale come quello del ciclismo. Aveva ragione quando ha
confessato al giornalista Leonardo Coen:”Il ciclismo mancherà a me ma anch’io mancherò al
ciclismo.”
Nessuno dimentichi poi il coraggio di Pantani, che un giorno in discesa si sbriciolò contro una jeep
abusiva sul percorso. Per tornare a correre serviva carattere a metri cubi, una forza interiore al
cento per cento genuina, tutta sua, senza additivi nemmeno psicologici.
E’ stato detto che Pantani era “fragile” dentro. Non si può escludere che il successo lo abbia invece
fatto sentire troppo forte. Forse, ha creduto di vincere ogni sfida, anche la più imbarazzante , e di
poter dipendere senza danni dalle sue ombre chimiche, dalle sue confuse amicizie, dal suo doppio
triplo Pantani. La sua depressione é come uscita di strada assieme a una mortale malinconia.

Era solo e isolato, appesantito, silenzioso, “strano” come racconta un testimone delle ultime ore. Gli
mancava anche un banale telefonino cellulare. Aveva chiuso a chiave la stanza per tenere fuori il
mondo, verso il quale avvertiva il rancore dell’abbandono.
Ha scelto di ritirarsi dalla corsa, Marco Pantani. Qualunque sia la verità dell’autopsia, sulla sua
morte domina una grande pena. Il “pirata” che staccava tutti in due tornanti, si fa già ricordare come
l’amaro protagonista di tanti romanzi dell’Ottocento.
Un uomo sempre in bilico con il campione, esercizio che gli é costata la vita.