2003 ottobre 20 Venice Marathon

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2003 ottobre 20- Venice Marathon

Prendi un nome attico di 2500 anni
luogo senza
tempo:Venezia.Traduci entrambi nella lingua priva di confini: l’inglese di Venice Marathon. E’
fatta, un cocktail speciale, una cosa a sé, non servirebbe altro.
Un professore di un’università americana ha raccontato che dopo venti minuti di corsa sentiva
ricongiungersi il corpo e la mente. Per simpatia ambientale, a Venezia il ricongiungimento
dovrebbe funzionare meglio che altrove.
Venezia aiuta sempre a immaginare, a pensare, a specchiare perfino muscoli e fatiche nei
propri pensieri. Il bello è che uno studioso del quale si è giustamente perso il nome sosteneva
che l’unico sport salutare per l’uomo era il nuoto, perché solo il nuoto impediva di sudare!
A suo dire, anche la più piccola goccia di sudore conteneva cellule sanguigne che, dunque, era
nocivo espellere. Secondo l’ eccentrica teoria proprio la corsa sarebbe stata il peggio del
peggio, figuriamoci una maratona con i suoi chili di sudore lasciati per strada.
Scemenze.Ha ragione invece quel premio Nobel per la fisiologia che considera la corsa una
specie di creativo allenamento del cervello.
Anche se si corre in 6300 iscritti al colpo è come se ciascuno corresse in solitudine, ma la
solitudine della corsa non ti lascia mai solo. Da Stra a Venezia, dall’asfalto alle pietre, dalla
villa labirintica alla città unica, si ripeterà lo stesso miracolo motorio: la solitudine di massa.
Alle Olimpiadi, il mio idolo della corsa era un poliziotto finlandese, dalla falcata senza difetti,
che dava stile anche allo sforzo più inumano. Lasse Viren era il suo nome, dominava i 5000 e i
10000, ma fallì la maratona.
Ho poi visto uno stesso atleta vincere due maratone olimpiche consecutive, exploit questo di
prodigiosa grandezza, senza conservarne però memoria né ammirazione. Mi capitò a Montreal e
a Mosca con Waldemar Cierpinski, piccolo sconosciuto Filippide della Germania comunista
con un curriculum di ex siepista.
Con i tedeschi orientali allora selezionati dalla nibelungica scuola di Lipsia, non si sapeva mai
se applaudire il campione o se sospettare il laboratorio. Magari facendo torto anche a qualche
innocente atleta senza chimica, l’ombra del doping allungava a priori ombre e penombre che il
tempo avrebbe dimostrato più che legittime. Con il Muro di Berlino, crollò anche l’omertà di
provetta.
Chissà, forse il buon Cierpinski era genuino come un pomo di Merano. Forse aveva dentro di
tutto. Chissà, fatto sta che quei suoi exploit così inaspettati mi rubarono un po’ del mio
religioso rispetto per la Maratona maiuscola, eredità greca, specialità classica quanto i versi del
poeta Pindaro.
Se ben ricordo, la maratona di Venezia è stata progettata una ventina di anni fa guardando da
vicino quella di New York. Piero Rosa Salva andava, tornava e sognava, e oggi il vecchio
sogno è già una tradizione che conta 17 edizioni. A me pare ieri, ma dev’essere colpa della
terza età che teneramente mi fa compagnia.
Il trapianto è felicemente riuscito, secondo vocazione cosmopolita. Nella Venezia dei 12
milioni di turisti, è straniero un quarto degli iscritti alla sua maratona. E trovo molto bello che,
tra gli stranieri, siano ben 240 gli statunitensi.
Con quel che è capitato l’anno scorso a New York, la maratona di Venezia aveva bisogno di
rappresentare anche fisicamente questa sua prima ascendenza americana. E’ vero che
l’essenzialità della corsa fa a pugni con la retorica di circostanza, ma questi che stiamo vivendo
sono davvero tempi in cui tutto si tiene, ad alta carica simbolica, in mezzo a cento paure e a
mille precauzioni.

Ignoro quali siano i favoriti. Provo a indovinare piuttosto lo spirito dei seimila, di questo branco
di gente positiva che porterà la modernità sportiva nel cuore antico e stabile di Venezia .
Non si corre una maratona per scherzo, mai. Ogni maratona vale mesi, anni di preparazione. Si
corre con a fianco il mito, in fondo.
E’ un impegno serio con se stessi; si nutre di disciplina, esercita la concentrazione, il piacere e
la sofferenza, il resistere e persino la nobiltà del cedere. Il suo è un grande agonismo interiore,
che sfida, misura e compete anche quando l’anima del concorrente è dilettante fino all’osso.
Una volta a Monaco di Baviera ho visto decine di maratoneti olimpici schiantarsi sugli ultimi
metri, svuotati di ogni energia ma terribilmente fieri dei loro piazzamenti destinati all’oblio.
Qualunque maratona, anche dell’ultimo classificato, è una fatica che sa sempre conquistarsi
qualcosa.
Se penso alle maratone che ho raccontato ai lettori e/o televisto da spettatore qualunque, rivedo
bipedi che si fanno titani. Alla sua Maratona, Venezia faccia ponti d’oro e stenda tappeti di
pietra.