2003 agosto 17 Dove va il Nordest

2003 agosto 17 – Dove va il Nordest. Il «piccolo e bello» può funzionare ancora
In tre mesi il Nordest è aumentato di ottomila imprese abbondanti; il solo Veneto ha così superato la
soglia delle quattrocentomila. Mentre l’Europa comunica ufficialmente la crescita zero della sua
economia, questi dati trimestrali dell’Unione delle Camere di Commercio a me suonano bene,
segnalano che il Nordest non ha ancora esaurito la voglia di impresa dal basso né perduto l’intenzione
di reagire alla fiacca dei mercati. In parole povere, quando apro il giornale e leggo che dalle nostre parti
il numero delle imprese aumenta in percentuale più che in qualunque altra parte d’Italia, la mia
reazione è ancora la stessa di una volta: finché c’è imprenditoria c’è speranza. E invece no, povero
illuso. Non avrei capito niente, sarei oramai in ritardo di trent’anni, avrei preso per buona una cattiva
notizia. Stando all’opinione oggi ampiamente dominante sui giornali e nei convegni, questa crescita
dovrebbe invece preoccuparmi da morire e farmi piangere sul futuro del Nordest. Per stare all’attuale
moda economica, dovrei anzi augurarmi esattamente il contrario, e cioè il calo del numero di imprese.
Brindare semmai alla mortalità, mai più alla loro natalità. La tesi corrente è infatti questa: tutte queste
microaziende non servirebbero a niente, farebbero danni e basta, spingerebbero all’indietro l’Italia, a
cominciare proprio dal Nordest del vecchio «piccolo è bello» delle origini. Il «piccolo» d’impresa
avrebbe insomma fatto il suo tempo, riducendo l’economia a una poltiglia di nani proprio nel momento
in cui, al contrario, il mondo globale pretenderebbe da noi soltanto giganti, concentrazioni
megagalattiche, fusioni da capogiro, imprenditori medi in perenne erezione produttivistica per
diventare grandi. O ingrandirsi o morire, altra strada non ci sarebbe al giorno d’oggi. Secondo me,
questa è una pazzia. Passerà, come la ciclopica bolla della «nuova economia». Non solo. Tale filosofia
propone brutalmente un’idea aberrante della società, ridotta a puro accessorio se non proprio a vuoto a
perdere dell’economia. Come dire che la vita di una comunità si misurerebbe soltanto secondo le leggi
della macroeconomia, del grande pil a sfilze di zeri e dei conglomerati d’impresa. Il resto sarebbe
spazzatura da bottegai, partite iva da pezzenti del capitalismo confindustriale. Ma è proprio in questo
scenario senza confini che, per fortuna, il «piccolo è bello» non è morto né in coma. Con le cifre
dimostra piuttosto di crescere ancora, funziona come primo motore dell’imprenditoria di massa, non ha
perso nulla della sua spinta propulsiva, testimonia la cultura del territorio. L’ex presidente degli
industriali di Vicenza, Pino Bisazza, sostiene che non si può più pretendere di avere il capannone, il bar
degli amici e la morosa sotto casa. Ha ragione da vendere; il Nordest ha cambiato il Nordest con le sue
stesse mani. Non è più lo stesso. Soprattutto, sta radicalmente cambiando il mondo con il quale il
Nordest deve confrontarsi economicamente. Ciò non toglie che, mentre tutto cambia alla velocità della
luce, la microimpresa serva tanto al tessuto della società quanto allo stato nascente dell’economia.
Anche una ditta individuale incrementa l’istinto a mettersi in proprio. Perci la natalità delle imprese
resta un valore popolare, altro che una palla al piede strutturale come si sostiene adesso da più parti.
Vorrei che qualcuno mi spiegasse ad esempio come il FriuliVenezia Giulia del dopo terremoto avrebbe
potuto salire al terzo posto nella classifica nazionale del benessere senza la trama della piccola impresa.
Come avrebbe potuto il Veneto costruirsi in trent’anni quasi ottocentomila abitazioni. E come la
tradizione dell’artigianato restare una voce fondamentale del Trentino-Alto Adige. Il fatto è che il
Nordest cammina con naturalezza sulle gambe di due tipi di economia. Quella più internazionalizzata,
che delocalizza e gira il mondo senza paura, che conquista commesse anche alla Casa Bianca, al
Cremlino o alla Real Casa inglese, che comincia a prendere confidenza con i manager, che ha inventato
in pochi decenni un modello da export dando lavoro a più di centomila extracomunitari. E c’è una
seconda strepitosa economia di sottobosco, un «piccolo è bello» tutto da riscoprire, che si rimodella e
irrobustisce. Si pensi all’artigianato che dall’industria ha preso l’organizzazione ma non lo spirito

standard. Si pensi all’espansione anche qualitativa del non profit, che si è inventato l’economia sociale,
una specie di welfare prodotto in proprio, un ammortizzatore economico che anticipa sia il profitto sia
lo Stato. La grande e la piccola economia sono sorelle siamesi. Soprattutto a Nordest si può vedere a
occhio nudo la loro interdipendenza. Tirano o declinano insieme, questo il punto; sono impensabili
separate. Con un appunto in più. Oggi il «piccolo è bello» aggiorna l’indispensabile economia di
sottobosco, da sempre coerente con un territorio in miniatura come il Nordest, privo di grandi
concentrazioni urbane e addirittura impegnato a smantellare – per modernizzarlo – il suo unico
dinosauro industriale: Marghera. «Piccolo è bello» non sa di burocrazia, di assistenzialismo, di
rassegnazione, di pancia piena. A Nordest è stato una colonna del benessere e, in parallelo alla società
del lavoro, ha favorito anche un’economia familiare. È andato oltre i fatturati, favorendo la coesione
sociale. Il suo nanismo economico non è mai stato nanismo sociale. Dipendesse dal sottoscritto,
continuerei a festeggiare finché la natalità delle imprese supererà la loro mortalità. Non date retta ai
demolitori di giornata. Il «piccolo è bello» non frena il capitalismo del Nordest. Aiuta anzi a
socializzare al massimo i schei, il fai da te e la responsabilità nei momenti duri. Ci guadagna alla fine la
comunità, il massimo. O no?
17 agosto 2003