2002 ottobre 6 Il Nordest stanco, ma di lavorare male

2002 ottobre 6 – Nordest stanco ma di lavorare male

Dicono che il Nordest sia {stanco}. Mi viene da commentare: si riposi, poi vediamo come va a finire.
Premesso che le ricerche del prof. Ilvo Diamanti sono le più utili a disposizione in Italia, prevedo che il
Nordest si stancherà perfino dei migliori sondaggi. Voglio dire che l’ossessivo guardarsi allo specchio
rischia per paradosso di favorire nell’inconscio collettivo più il lamento che il realismo, l’infelicità con
la pancia piena al posto della sana, dura, aspra energia che serve a guardare in faccia i guai per
risolverli. E’ ovvio che non esiste sviluppo senza prezzi da pagare alle trasformazioni, ma qualunque
sottosviluppo o stagnazione o crisi costa enormemente di più, dunque calma e gesso, nessun dramma.
Per il presidente degli industriali di Vicenza, come noto capitale provinciale dell’industria nazionale, il
modello nordestino non sarebbe più sostenibile. Vorrei sapere quando è stato un modello e quando
sostenibile, visto che non fu mai né l’uno né l’altro. Il Nordest ha funzionato come la corsa verso
l’Ovest negli Stati Uniti e anche qui da noi i più bravi a correre furono proprio quelli che, pur non
avendo sulla carta nessun futuro economico, ne reclamavano finalmente uno ad ogni costo. Quel
Nordest della primissima ondata aveva tutto il diritto di essere stanco, ma era stanco di tirare la cinghia,
di sognare polenta, di fare orari bestiali per niente senza nemmeno la consolazione dei giusti benedetti
schèi. Di insostenibile c’era soltanto la fatica in una società ricca per pochi e povera per tanti. Tanti
capitalisti di oggi sono i tanti poveracci di ieri. I costi di quel portentoso fai da te vanno ri-vissuti
proprio oggi, nella fase matura dei schèi, per quello che sono stati: un male necessario, non una colpa
generazionale da autoflagellazione.
Provino gli intellettuali del de profundis permanente a realizzare qualcosa di più nello spazio di un
mattino, tra la marginalità contadina e la Vita Nova in fabbrica, in bottega o con la partita Iva infilata
accanto all’immaginetta del santo protettore.
Niente è stato semplice e niente è filato liscio. Il capitalismo animale dell’uomo qualunque dilagò dagli
anni Sessanta su un territorio già frammentato, mentre il capitalismo ereditario delle poche grandi
famiglie conosceva il trauma sindacale del 1968.
Nell’aprile di quell’anno, ad esempio, il monumento
di Gaetano Marzotto Senior fu abbattuto da operai di Valdagno e da studenti di Sociologia
dell’università di Trento. In 40 anni l’intero Nordest ha ricuperato secoli non decenni, e ci è riuscito
disponendo di una sola corrente elettrica: il lavoro. Lavoro, lavoro e ancora lavoro, dice Rina Biz con il
suo non-profit al femminile. Dichiararsi adesso stanchi di lavorare diventa pericolosissimo perché
sappiamo fare solo quello. Siamo ancora poco finanzieri, troppo poco ricercatori, tuttora in via di
irrobustimento scolare e sempre così legati alla generazione dei padri fondatori delle aziende da non
poter permettersi il lusso di depotenziare il valore del lavoro.
Valore numero uno del Nordest, quasi un ultimo Messale di massa perché valore cristiano, contadino
e culturale prima che forza/lavoro.
Non a caso i problemi del Nordest sono legati soprattutto al lavoro. Deve importare lavoro ed esportare
lavorazioni, con un intreccio epocale, per nulla congiunturale.
Avendo puntato moltissimo sul lavoro autonomo registra la tensione retributiva del lavoro dipendente.
Paga alle varie Tangenziali di Mestre una clamorosa tassa sul lavoro, peggio che una manomorta
feudale. A mio parere, non è stanco di lavorare. E’ stanchissimo di lavorare male, di lavorare contro, di
lavorare senza.
In 30 anni, il Nordest ha creato con le sue mani un’area ai primi posti al mondo.
Da 30 anni, il Nordest aspetta servizi necessari anche ad aree ultime al mondo proprio quando
l’economia globale promette anni pesanti e mentre il cambio generazionale fa sparire 30 imprese su
100. Dopo il fai da te, il Nordest si aspettava come il pane il fai per te. E’ felice dei schèi e ne vorrebbe
distribuire di più; è infelice

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dello spreco di lavoro. Non
del troppo.
Giorgio Lago

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