2002 ottobre 13 Mario Cipollini

2002 Ottobre 13 – Mario Cipollini

E’ una scultura da Foro Italico, atleta pari a un bronzo di Riace espanso. Ha la faccia da attore del
genere “spaghetti western” di Sergio Leone. In gara si presenta con tute zebrate che sarebbero
piaciute soltanto al pittore surrealista Salvador Dalì. A 35 anni, che non sono pochi, Mario Cipollini
il toscano di Lucca è diventato campione del mondo di ciclismo su strada.
Lo chiamano Re Leone.Tanti anni fa esistevano “i leoni delle Fiandre”, lassù pedalando nel vento
del Nord. Il ciclismo ha bisogno dell’enfasi come dell’ossigeno: la retorica è il suo respiro, più che
mai oggi. Dunque Re e Leone, entrambi maiuscoli.
Il ciclismo non è uno sport come gli altri. E’ una fatica attaccata a un ricordo, a un oggetto in
controtendenza. La bicicletta non consuma benzina, non produce rumore, non inquina. Rappresenta
il romanticismo della mobilità di massa.
Cipollini è un uomo da volata. Le sue squadre lo accompagnano in corteo fino a 150 metri dal
traguardo, dove lui resta solo. In quell’attimo di solitaria potenza muscolare, lo sprint oscura
persino gli avversari: si vede soltanto il traguardo, quasi in apnea.
O sei primo o non sei niente. 24 ore prima aveva onestamente avvertito:” Non mi interessa che si
arrivi secondi; la coppa dei primi dieci è roba da ragazzini. Mi interessa solo la vittoria.”
Ieri in Belgio, era il suo circuito. Liscio, piatto, curato. Persino la candida segnaletica orizzontale
era tanto perfetta da sembrare pitturata a mano sull’asfalto.
Cipollini aveva tre buonissime ragioni per battere tutti. L’Italia non vinceva più da dieci anni. Il
doping ha quasi rovinato il ciclismo. Lui sentiva che era la sua ultima occasione mondiale.
Si era preparato per ciò che voleva. Doveva rimettere un po’ di cose a posto e ha ottenuto ciò che
doveva, anche se molto spesso il più rognoso mestiere dello sport è di essere “il favorito”.
Una volta, al Giro d’Italia, l’ho visto scattare in testa sul porfido di piazza Giorgione a Castelfranco.
Mi aveva subito ricordato Rik Van Steenbergen, un belga che negli Anni Cinquanta si annunciava
con lo spostamento d’aria.
Pur così diversi, ho pensato quel giorno anche a Toni Bevilacqua, un dio iridato dell’inseguimento,
uno specialista dell’ultimo colpo di reni. Quando, in un recente e prezioso libro, Claudio Gregori
descrive un suo sprint a Padova, l’épos popolare si svela tutto :” La corsa è un cunicolo scavato
nella folla. Davanti alla sua ruota la strada vibra musicale come la corda di uno Stradivari.”
Cipollini è Cipollini ma, come sempre e soprattutto nel ciclismo, le memorie si avvitano. In fondo,
ogni nuovo campione è sosia di un altro nonostante che niente assomigli più ai tempi di Van
Steenbergen o di Toni Bevilacqua, detto il “labròn” per il labbro carnoso.
I ciclisti d’oggi sono motori, messi a punto come formule uno in carne ed ossa. Corrono sempre;
sono condannati a migliaia di chilometri di allenamento per preparare gli ultimi 150 metri di una
volata.
Soffrono molte tentazioni perché sanno che carichi di fatica da superman hanno bisogno di essere
“integrati”. Spesso il ciclismo si rovina la reputazione in quella strettissima terra di nessuno che
separa l’integratore dal veleno.
Pensa te, un asso di montagna come Gino Bartali si riforniva in corsa con pollo, arance e zucchero.
Si era inventato anche una bibita che allora si sarebbe detta energetica, con tanto di dosi: 50 per
cento di peptocola, un tubetto di Cola Astier, 250 grammi di zucchero e due/tre tazze di caffè.
Era anche prudente nel consigliarla a nuovi ciclisti. “Se non hai ancora mangiato – diceva – può
provocare bruciori di stomaco.”
Aveva già vinto 180 corse Mario Cipollini, ma questo Mondiale 2002 ci voleva proprio. Si allinea
bene alla Ferrari che non pare neanche della Fiat. A Schumacher che a forza di record non pare
neanche di questo mondo. A Valentino Rossi che è uno spot di giovinezza.
Una giornata così serviva anche ai languori della Nazionale di calcio. Un calcio che non ride più
nemmeno se a raccontarlo sono Gene Gnocchi e Striscia la notizia. Un calcio che incensa arbitri
Narcisi e che è riuscito nell’impresa impossibile di immalinconire perfino uno come Giovanni
Trapattoni.

Il mio caro Trap ha sbagliato tutto dopo il Mondiale di Moreno. Doveva dimettersi, ma non perché
fosse colpevole dell’eliminazione. Doveva lasciare per difendere la sua allegria.
Per fortuna, Mario Cipollini sorride anche per lui.