2002 novembre 10 Donne Milla Jovovich

DOMENICA 3

Donne

Milla Jovovich, 26 anni, attrice dell’Est emigrata negli Usa: “Ho dovuto passare attraverso le
umiliazioni per apprezzare quello che avevo nella vita.” (da “D”)
Pamela Camassa, 18 anni, ha rinunciato alla finale di Miss Mondo dopo essere stata prescelta per
l’Italia:”Del successo non me ne frega niente. Getto via la maschera e resto la Pamela di sempre.
Tornerò a respirare l’aria di provincia della mia bellissima Prato.” (dal “Corriere”)
Daria Galateria, 52 anni, scrittrice:” Quando in un Parlamento la rappresentanza femminile è
soltanto del 9 per cento, mentre l’elettorato è 50 e 50, qualcosa non va.” ( da “Capital”)
Patty Pravo, 54 anni, cantante:”Non ho fatto l’amore per dieci anni.” (da “Oggi”)
Giuliana De Sio, 45 anni, attrice:” Ma dov’è la stranezza? A me è successo di non fare l’amore per
sei anni. Ero depressa, avevo altro a cui pensare.”
Dacia Maraini, 66 anni, scrittrice:” Chiamare “angeli” i bambini della scuola di San Giuliano di
Puglia significa relegarli subito nel paradiso dei dimenticati.” ( dal “Messaggero”)

LUNEDI’ 4

4 Novembre

Mio padre era un “ragazzo del 1898”. La famiglia contava undici figli tra sorelle e fratelli, uno
emigrato in Merica. Nel 1915, poco prima dello scoppio della grande guerra, i ragazzi della sua età
si mettevano lungo la ferrovia Padova-Treviso, all’altezza di Tombolo, per veder passare i treni
carichi di soldati e di cannoni diretti verso il Friuli.
I ragazzi erano più fieri che preoccupati, come si può leggere in un suo diario . “ Noi ragazzi –
scriveva – siamo in strada a salutare le truppe di passaggio e ad incoraggiare.”
I giornali la presentarono come “la buona guerra” e i nazionalisti come la fucina del “culto degli
eroi”, anche se un papa l’avrebbe poi bollata come “l’inutile strage”. Una preghiera recitava:”Rendi
la Patria, Dio, rendi l’Italia agli Italiani” .
Allo stesso Dio cattolico gli austriaci chiedevano l’esatto contrario. Dalla presidiata Lavarone
calcolavano di piombare a Vicenza in 48 ore.
Nel febbraio del 1917 anche la classe “di ferro” 1898 fu chiamata alle armi. A diciotto anni e mezzo
mio padre fu assegnato alla VI compagnia automobilisti dell’Artiglieria a cavallo e siccome anche
suo fratello Carlo era al fronte come autiere così si ritrovarono in coppia sullo stesso mezzo. Due
degli innumerevoli giovincelli della campagna veneta entrati di colpo nella Guerra Mondiale, la
prima globale della storia.
I loro cavalli da battaglia erano i camion 18P Fiat a gomme piene, velocità massima 26 km all’ora,
che riuscivano a trasportare 30 quintali. La motorizzazione stava facendo passi da gigante:l’anno
dopo, i mitici 18BL portavano già 45 quintali e avevano un ottimo sterzo per manovrare in
montagna, su e giù stracarichi di munizioni per i combattenti di prima linea, da altopiano ad
altopiano, da Asiago alla Bainsizza a nord di Gorizia.
Trasportavano anche botti di acqua potabile. La sete era tanta. Un sottotenente che non ce la faceva
più si buttò a bere dal serbatoio del camion l’acqua rugginosa che serviva a raffreddare i ceppi dei
freni.
Sotto il sole d’agosto montagne di cadaveri andavano presto in decomposizione. Durante la
battaglia dell’Isonzo, sulla Bainsizza furono scavate grandi fosse comuni, segnalate da due tavole
inchiodate in croce con la scritta: “Morti per la Patria.”
La morte giovane era più familiare della stessa vita, e i ragazzi invecchiavano alla svelta. Potevano
restare giovani soltanto sognando il domani.

I soldati siciliani erano i più parsimoniosi con i due soldi di paga al giorno, perché volevano tornare
a casa almeno con una catenina d’argento al collo o con il primo orologio della loro vita al polso. Di
sera all’aperto era vietato accendere anche la sigaretta, per non farsi posizionare dal nemico.
”Ma chi ha mai inventato la maledizione della guerra?”, leggo nel diario paterno. Proprio in quei
giorni aveva compiuto 19 anni, e fu subito Caporetto, la rotta, la ritirata, la sconfitta, il panico, la
paura, circa 300 mila prigionieri italiani, masse di profughi in fuga, quasi mezzo milione di soldati
allo sbando dei quali 750 fucilati per diserzione.
Il caos, l’addio a ogni giovinezza. C’era chi saccheggiava le mense per sbronzarsi e dimenticare con
bottiglie di liquore Strega e di Campari. Venezia, con la Basilica di San Marco imbottita di sacchi di
sabbia, era quasi a tiro dei cannoni austriaci.
L’ultima frontiera diventò il Piave. Dal deposito di Tencarola, pieno di efficienti proiettili calibro
75, partiva un camion dietro l’altro rifornendo il fronte 24 ore su 24. Per non addormentarsi al
volante, si cantava forte “Quel mazzolin di fiori”…
A pochi mesi dalla fine della guerra mio padre soldato autiere si ammalò di “spagnola”, tipo di
influenza che fece in Italia 500.000 mila vittime, quasi quante i battaglia. La malattia poteva essere
curata soltanto a cucchiaiate di poligala amara, pianta molto diffusa dalle radici terapeutiche.
Nella villa ospedale di Tribano, nel padovano, vide morire un sacco di ragazzi come lui. Lui,
fortunato, si salvò. La guerra sarebbe finita di lì a poco.
Ogni anno, ovunque i Comuni continuano ancor oggi a dedicare manifesti murali al 4 novembre
1918, il giorno che alle ore 15 decretò la Vittoria. Quest’anno ad esempio, su quello affisso nella
mia Castelfranco Veneto, ho contato due volte la parola “guerra” e due volte la parola “pace”.
Non so se , a sangue freddo, i diciottenni di adesso riusciranno a immaginare almeno in penombra i
lontani.diciottenni del 1915, del 1940 o del 1943. Loro avevano a disposizione, a sangue caldo, una
sola delle due parole.
Ai combattenti in carne e ossa, che “obbedirono al comando dell’Italia” come rammenta un
monumento ai caduti di sempre, non fu dato il tempo di discutere la Storia maiuscola che li
precettava, ma al massimo di vivere ciascuno il proprio minuscolo frammento di uomini. Molto
spesso, di morire con esso.
Per quattro anni, su tutti i fronti della prima Guerra Mondiale, morirono in media quasi 5.000
uomini al giorno. Eroi delle tante Patrie e di un destino comune.

MARTEDI’ 5

Serenissimi

Guidò i Serenissimi sul campanile di San Marco a maggio del 1997; più di cinque anni dopo, è
ritornato ora in libertà. Fausto Faccia ha pagato tutto con straordinaria dignità.

MERCOLEDI’ 6

Fenice

La Corte d’Appello di Venezia ha confermato la prima sentenza: a incendiare la Fenice furono due
elettricisti,veneziani. Hanno dato fuoco non per mania incendiaria ma per evitare una penale di 15
milioni di lire sul ritardo dei loro lavori.
Criminali, non piromani.

GIOVEDI’ 7

Regioni

Incontro Governo-Regioni: chiuso per deficit.

VENERDI’ 8

Treviso

Diventata in poco tempo capitale internazionale delle mostre dell’Impressionismo, Treviso ha
aperto Casa dei Carraresi a un altro grande pittore, ieri Monet oggi Van Gogh. In concomitanza con
l’inaugurazione un soprintendente museale di Napoli ha dichiarato al “Venerdì” di
Repubblica:”Cosa c’entrano gli impressionisti con Treviso?”
L’impressionismo sarebbe “decontestualizzato” a Treviso. Peggio ancora non farebbe “crescere
culturalmente la città” tant’è vero che – sempre a suo dire – il pubblico arriverebbe numeroso senza
sapere perché.
Ma mi faccia il piacere!, gli risponderebbe Totò.
L’unico a non sapere perché, a mezzo milione di persone al colpo, “il pubblico corre” a Treviso per
vedere i Monet, Van Gogh, Cézanne, Renoir, Gauguin eccetera eccetera, è ad occhio e croce il
succitato soprintendente museale. Molto museale.
Secondo me, proprio il colore emotivo degli impressionisti richiama invece un pubblico speciale, e
attizza cultura a largo raggio. Chi li ama, li segue.
Ma poi, posso dirlo?, a me Treviso sembra una città impressionista in natura! Che offre semmai il
contesto giusto, una luce coerente tra i luoghi della pittura di Casa dei Carraresi e i luoghi del
vivere.
Il Sile è in fondo una piccola Senna, con tutte le suggestioni della pittura fluviale dal vero. E nel
cuore “en plein air” di Treviso non credo proprio che i pittori impressionisti si sarebbero sentiti
“decontestualizzati”.
Vedere le loro mostre e Treviso per credere.

SABATO 9

La citazione

Ulderico Bernardi da “La piccola città sul fiume”, editore Santi Quaranta.
“Angelo Giuseppe Roncalli assume il nome dell’apostolo Giovanni, XXIII della serie papale. Con
immediata simpatia, i veneti che ebbero modo di conoscerlo e amarlo come Patriarca di Venezia, gli
affibbiano un soprannome buffo quanto affettuoso, quasi a rivendicare rapporti di familiarità con il
nuovo pontefice. Lo chiamano “ Bepi schedina”. Il 23 dei numeri romani richiama infatti le
previsioni sull’esito delle partite nel popolare gioco settimanale a premi, dove X sta per pareggio e I
indica la vittoria della squadra di casa. Un modo per sottolineare la profonda umanità e l’origine
popolare del Papa. Che possiede la tenacia e l’impeto dei bergamaschi. Che non hanno paura di
niente, e sono noti a tutti come gran lavoratori.
E pensare che nella tiritera che elenca i blasoni delle province della Repubblica di San Marco i
compaesani di Papa Giovanni sono indicati come “brusacristi!”. Sentenzia infatti la filastrocca:”
Venessiani, gran signori; Padovani, gran dotori; Visentini, magnagati; Veronesi, tuti mati;
Trevisani, pan e tripe; Rovigoti, baco e pipe; Udinesi, castelani col cognome de furlani; i Bressan,
tagiacantoni; i Cremaschi, fa’ cogioni; ghe n’è anca de più tristi, Bergamaschi brusacristi!”.