2002 maggio 4 Nordest

2002 maggio 4 – Nordest

Fino a ieri,e per tutti gli anni Novanta,il Nordest è stato il laboratorio delle fratture , delle
ricomposizioni politiche e, soprattutto, delle spinte alla modernizzazione del sistema italiano.
Adesso privilegia la fase per così dire socio-economica , con epicentro il lavoro e l’impresa.
In questa fase storica, il Nordest gode di un crescente ruolo geo-politico. Da Venezia alla Baviera,
si incrociano due Europe , la nordica, più compatta, e l’adriatica, foriera di infiniti sud del mondo
mediterraneo. Attenzione, qui non c’è un pelo di retorica; soltanto nuda e cruda realtà quotidiana
che ogni giorno sbarca tra noi.
Questa è anche un’area acefala, senza capitale, di un tempismo da manuale nel senso che nasce a
rete nel tempo delle reti manifestando con il tradizionale policentrismo urbano il capitalismo
orizzontale come indotto. Dio, Patria, Famiglia e Impresa.
Questo tipo di “localismo” sembra fatto apposta per il “globalismo”. E’ un po’ come se il Nordest
godesse oggi della clausola di nazione favorita .
Mentre il mondo si spalanca, qui le frontiere dell’Est si trasformano da barriere in cerniere; mentre
ci si apre al mondo frantumato, qui noi siamo da sempre esercitati proprio al frammento; mentre i
mercati internazionali pretendono flessibilità, qui la flessibilità nacque strapaesana, dall’ ora et
labora senza orario al faso tuto mì delle origini. E , infine, mentre la concorrenza si fa mondiale,
l’homo economicus nordestino qui pensa in dialetto e produce in inglese.
Il punto è essenziale.Di qualcuno che ha perso il controllo noi siamo soliti dire che “è fuori di sé. Il
tema del giorno consiglia appunto di vivere la fase globale senza perdere il controllo. Fuori di noi,
ma come tanti Marco Polo non come tanti dispersi della/nella modernità.
E’ già stato detto; serve ribadire. Il solo antidoto è il localismo, o meglio il cocktail del glocalismo,
tra globale e locale. Più incalza il Global più serve il Glocal, contrappeso di umanità: se il Global
tende all’unità, il Glocal alla differenza.Senza il primo, finiremmo pateticamente autarchici; senza il
secondo, entreremmo in un ingranaggio senz’anima, pari a quello forsennato dell’operaio-
macchina di Charlot nel pedagogico film Tempi moderni.
Al Global siamo destinati dai portenti della tecnologia; con il Glocal si evita l’impazzimento degli
spazi del vivere quotidiano. Non è nuovismo da quattro soldi, questo, ma vocazione a elaborare
materiali di primissima mano come di vecchissima tradizione.
Dopo la migrazione epocale (di persone) e dopo l’export competitivo (di merci), il Nordest adesso
esporta anche imprese. Anzi, delocalizza all’estero o investe nel Sud d’Italia, sempre nel nome del
capitalismo dell’uomo qualunque, il più radicato, il più autonomo e , forse, il più cristianamente
sociale.
Nell’enciclica Rerum Novarum, Leone XIII profetizzava a mio parere“il piccolo è bello” quando
canonizzò quasi la piccola e media proprietà. E venti anni fa, con la Laborem exercens, il Papa di
oggi raccomandava che persino nel lavoro dipendente venisse garantita alla persona la
consapevolezza di “lavorare in proprio”. Un valore in sé , a maggior ragione in un’area come il
Nordest dove, per sedimentazione fossile, famiglia e capannone hanno messo d’accordo con i schèi
anche il sottinteso “perché non possiamo non dirci cattolici”.
Si era detto che è finito il lavoro, che la tecnologia avrebbe archiviato l’idea stessa di “lavoratore”.
No, anzi il lavoro comincia e ri-comincia da capo, come dimostrano le quasi 150 professionalità in
uscita dall’università. Come dimostrano il lavoro al femminile e l’impresa al femminile. Come
dimostra il boom del lavoro individuale,il cui record italiano sta a Trento secondo l’ultimissimo
rapporto del Censis.
Anche un certo Veneto non esiste più, è finito, è una cartolina color seppia. Anzi,il Veneto della
piena occupazione, dell’export e del Pil durevoli dipende sempre di più dalla sua capacità di s-
venetizzarsi per così dire. E’ già un altro Veneto questo; gli studiosi dicono che presto sarà multi-
etnico, multi-culturale, multi-religioso. Così beninteso l’intero Nordest, stretto in mezzo tra il

massimo della denatalità e il minimo della disoccupazione, dunque non più auto sufficiente e anzi
affamato di immigrazione di ogni livello scolare: dai manovali agli informatici.
Del resto il lavoro è incontro, fare assieme, riconoscersi nei fatti, con-dividere, identificarsi senza
ulteriori impronte digitali. Fatti salvi doveri e diritti, è cittadinanza il lavoro.
Ne ha discusso ieri a Padova la Pastorale sociale della Chiesa del Triveneto. E ricordo che due
grandi liberali europei come Luigi Einaudi e il tedesco Ludwig Erhard insistevano mezzo secolo fa
nel dimostrare che non il benessere bensì la povertà rendeva materialistica l’esistenza. E’ la povertà
che costringe l’uomo a preoccuparsi senza requie della materialità della vita quotidiana; e le nuove
umilianti povertà della società del Pil sono perfino più pesanti di quanto fossero le povertà nelle
società pauperistiche.
I nuovi poveri di oggi sono i veri esclusi, e noi a Nordest, con una media di 40 milioni di reddito
pro-capite, non possiamo permetterci il sommo cinismo di accogliere il Sud “povero” del mondo
per trasformarlo in “nuovo povero” del Nord del mondo, insicuro lui di noi e noi di lui. Sarebbe
oltretutto un Vangelo alla rovescia oltre che un errore economico.
Il lavoro – ha ragione don Livio Destro nel farmelo notare – è davvero l’esperienza più globale
dell’umanità. Aggiungo che il Glocalismo è il Globalismo a misura d’uomo, anche se da uomo della
mia generazione confesso di sentirmi un po’ sopraffatto da entrambi.
Questo é un tempo di portenti,occasioni e insidie, ma è poi mai esistito un tempo non insidiato?
Della globalizzazione, come ieri della scoperta dell’America, si può soltanto prendere atto e fare
buon uso, in sicurezza.
Ripeto da sempre che nessuno ha definito il nostro tempo in modo più sintetico e completo di
Paolo VI, con due soli aggettivi:” Splendido e babelico”. Appunto.