2002 aprile 14 Israele

2002 aprile 14 – Israele

Ospite l’altra sera del tele-show di Michele Santoro, una nota pacifista israeliana ha detto le cose
più utili.La prima:i kamikaze costruiscono solo morte, la pace è vita. La seconda: quella tra Israele e
Palestinesi non è una partita di calcio. Infatti, possiamo aggiungere, non si è mai vista una partita in
cui perdono tutti, come quella sotto i nostri occhi, ultima di un dramma forse unico al mondo:
perché di esso non si indovina la fine ma, questo il punto, non si conosce nemmeno l’inizio.
Volendo si può cominciare biblicamente da quattromila anni fa o dallo Stato giudaico di duemila
anni fa, oppure dallo Stato di Israele costituito nel 1948 e dalla nascita nel 1964 dell’Olp,
l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Questo conflitto è pieno zeppo di date, anche se
sembra senza tempo e accompagna da sempre le nostre generazioni, i nostri pensieri,le nostre
piccole storie.
Ho un ricordo del 1956, come fresco di giornata, appena fatto l’esame di maturità al mio
amatissimo liceo Canova di Treviso.La nostra compagnia di amici funzionava come un
parlamentino: chi missino iscritto al partito, chi socialista, chi liberale iscritto come me, chi
comunista con tanto di tessera del Pci e chi moderatamente dc, ciascuno con una buona ragione per
essere quel che era e nessuno disposto a inquinare l’amicizia per le quotidiane baruffe politiche.
Faziosi e tolleranti, così si usava, anche quando il generale israeliano Moshé Dayan arrivò fino al
canale di Suez con una delle sue guerre-lampo.Nel 1956 esattamente come oggi, si temeva che il
Medio Oriente potesse funzionare da miccia di qualcosa di ancora più micidiale; e quanto a noi
studentelli di provincia nessuno si dichiarava neutrale: ognuno occupava la sua duna di sabbia,
come se fossimo partiti volontari per il Sinai.
Stendevamo grandi carte geografiche sui tavolini del nostro bar preferito, per provare a visualizzare
ciò che la primissima televisione , in bianco e nero e a un solo canale, faticava ancora a chiarire.
Per saperne di più, prendevamo la corriera della Siamic e andavamo in città, all’edicola della
stazione ferroviaria dove nel tardo pomeriggio arrivavano i quotidiani francesi.Nel mio caso,
preferivo “Combat” e “L’Aurore” perché schierati senza remore con Israele; certi titoli erano alti
una spanna, come cingolati in pagina, al cui confronto le prime pagine dei giornali italiani
apparivano emotivamente nane. Niente di nuovo; senza saperlo, eravamo globali.
Allora non c’era affatto la percezione del popolo “palestinese”. Le guerre venivano definite “arabo-
israeliane”; l’Intifada palestinese era distante decenni, e soprattutto gli Stati arabi rifiutavano tanto
Israele quanto uno Stato palestinese su metà circa della Palestina. La Palestina non era ancora una
questione “nazionale”.
E’ arcinoto che il sionismo, cioè l’ideologia ebraica che rifonda il ritorno alla antica Terra
promessa, risale al primo Novecento,ma è altrettanto innegabile che nel 1948 lo Stato di Israele fu
sentito dal mondo come un mea culpa per lo sterminio di sei milioni di ebrei. Sei milioni: più
dell’intera popolazione israeliana di oggi. Nasceva uno Stato per ricordare l’ identità dispersa e per
non dimenticare le camere a gas. A 18 anni, noi ragazzi dicevamo “israeliani”, ma pensavamo
“ebrei”.
Oggi, giustissimamente, i palestinesi si richiamano alle risoluzioni delle Nazioni Unite.Servirebbe
però non dimenticare mai che proprio l’Onu fondò Israele riconoscendolo per sempre tra gli Stati
(come non ha fatto per mezzo secolo… il Vaticano). Lo Stato di Israele è esso stesso una
risoluzione dell’Onu.
Questa non è una partita di calcio; é anche il conflitto più complicato del mondo, nonostante la
saccenteria di tanti commentatori che con il senno di poi sanno sempre chi ha sbagliato oggi, ieri,
cento o mille anni fa. E’ facilissimo invocare la pace, difficilissimo organizzarla tra kamikaze e
macerie, anche se non si parte da zero, ma da pezzi di pace che pur ci sono stati.
La figlia dell’eroe di guerra Moshé Dayan, laburista moderato, ha recentemente rivelato che suo
padre non si fidava di Sharon considerandolo “un uomo difficilmente controllabile”. Di Arafat, il
generale aveva su per giù la stessa opinione.

Ma adesso il problema numero uno non sta nel domandarsi perché questo Sharon sia fino in fondo
quello Sharon copia conforme. Piuttosto, sta nel chiedersi come mai Peres, laburista, riferimento
della sinistra israeliana, premio Nobel per la pace, ministro del dialogo, erede di Rabin assassinato
da un fondamentalista ebreo, come mai un uomo come Peres condivida al governo la guerra di
Sharon. Soltanto i tanti sepolcri imbiancati in circolazione possono permettersi il lusso di evitare
risposte sul punto.
E’ l’attentato suicida che spiega tante cose di Israele, come le Torri di New York hanno cambiato
gli Usa.Non il terrorismo anche più sanguinoso ma per così dire classico; no, questo terrorismo lo
usò anche Israele contro gli inglesi e in risposta agli arabi.E’ il kamikaze a estremizzare la paura di
Israele; a sconvolgerlo con una paura doppia, che insidia non soltanto la sicurezza di ciascuno ma,
nel profondo della psiche collettiva, la stessa sopravvivenza come Stato. Un minuscolo Stato con
democrazia e senza petrolio tragicamente avversato da troppi Stati senza democrazia e con petrolio.
Non è forse banale sostenere che a Gerusalemme la pace tra gli Stati dovrà precedere per forza
quella tra i popoli, anche se sarebbe bello il contrario. Per ora, perdono tutti. Finora,vincono
soltanto i fabbricanti di giovani suicidi, che sono riusciti a far tirare fuori il peggio del Medio
Oriente: la disperazione di tutti contro tutti.
Solo un potere più forte della disperazione può oggi intervenire.