2001 maggio 23 “La Malibran”

2001 maggio 23 – “La Malibran”

Il prof. Paolo Costa arrischia davanti a 25 telecamere: “Nel primo semestre del 2003, riaprirà la
Fenice”. Per adesso, ha riaperto il teatro Malibran, dal nome della cantante dell’Ottocento incantò
mezza Europa a Venezia. Leggo in un bel libro della Marsilio, promosso dagli Amici della Fenice di
Barbara Valmarana, questo ritratto di Maria Felicita Garcìa, della “La Malibran”: “Ella fa due cose
da uomo: concerta (le opere in cui canta), viaggia (di solito vestita da uomo); due da donna: è gentile
e modesta (provvede ella stessa alla sua toeletta senza neppure una cameriera); una da diavolo: canta”.
Dev’essere stata proprio una sublime artista se i veneziani, appena ventenne, le dedicarono il loro
teatro con entusiasmo.

Tutti sanno che, prima della Malibran, era il Teatro di San Giovanni Grisostomo, in una città
geneticamente teatrale, che nel Settecento disponeva di quasi una ventina di sale musicali. Il grande
scrittore tedesco Goethe ne andava pazzo ed aveva una sua teoria, ritenendo che i veneziani amassero
così tanto il palcoscenico perché riproduceva con naturalezza la loro vita quotidiana, all’aria aperta.

In una città da passeggio come Venezia, conversare è in fondo già recitare. Il teatro della gente non
chiude mai i battenti.

Ogni teatro che rinasce, fa sempre festa, ovunque. A maggior ragione a Venezia e, ancor più, in questa
Venezia che al passato non può ritornare ma al futuro sì, il contrario della città-museo.

Il museo ha un orario, si apre e si chiude; la città no, una città vive a orario continuato con tutte le sue
funzioni o non è. Sfrutta fino in fondo il patrimonio culturale con annesso business, che male c’è?,
anche se senza esaurirsi in esso.

Il maestro Giuseppe Sinopoli immaginava Venezia come isola primordiale. Una solitudine questa da
non temere, nemmeno se Venezia si separasse amministrativamente da Mestre, a patto di non abdicare
all’idea di città. Speciale fin che si vuole, ma pur sempre “città”; a sé, ma tutelata dallo Stato italiano
per conto dell’intero mondo, come ha ricordato Costa al presidente Ciampi, la sera della riapertura
della Malibran.

Il destino di Venezia consiste nella composizione degli opposti e dei contrari. Il mare e la laguna, la
conservazione e lo sviluppo, la specialità e la quotidianità, il popolo e le pietre, il museo e le fognature,
il monumento e l’impresa, la difesa idraulica e l’habitat, il teatro e la Giudecca, le tante anime del
tempo, popolare e colta, universitaria e mercantile, campus e terminal, Internet e il pesce fresco, con
le castrature.

La città che più indulge al rimpianto domanda un surplus di energia e di investimento. È questo il suo
doppio più faticoso.

Uno scrittore veneto, magnetico come Goffredo Parise (appena ripubblicato da Rizzoli), paragonava
Venezia a New York, trovandole somiglianti persino negli odori di Manhattan e di Punta della
dogana. “Entrambe le città – ha scritto – nacquero da un’isola, sabbiosa, paludosa Venezia; di trachite,
la pietra più dura che esiste, New York”.

Tra un Malibran ritrovato e una sospirata Fenice, farebbe bene a Venezia un’iniezione di trachite nel
carattere. Una virtù dura, contro i grandi lamenti e le piccole rendite.